diserzione
Non c’è diserzione nel crudo paesaggio
di corpi arrostiti sul bagnasciuga
nel giro di boa alla prua dello scafo,
buio scafandro con cuore di uomo.
L’umanità trabocca: il palombaro,
stagliatosi all’orizzonte, presenta
sul casco il riflesso ramato del cielo:
presagio di giorni migliori a venire.
E in certe sere i tuoi gemiti tacciono
mentre – gioioso – deflagro l’imene
al pensiero del prossimo giorno
e le nostre pelli sudate arrossiscono.
Aggiungo, pensoso, che non c’è lingua
del mondo che non si faccia, poi,
sentimento, canale preferenziale
glicemico nell’aorta rigonfia di bile.
Chiamiamolo con il suo nome:
chiamiamolo stupro, chiamiamola
ustione o “sete di prevaricazione”
oppure esautoriamolo: chiamiamola
pancia, sanguigno amor patrio,
caratteristica della nazione, padre
amorevole, sorriso di madre, divino;
chiamiamolo dio, che vede e provvede,
malsana voglia di non progredire,
ché l’eccesso di mutazione provoca
crisi d’identità e intossicazione alimentare;
torniamo ad essere, oh italianissimi,
schifosamente noi stessi.
*
l’acredine
Le cicche di sigaretta nel posacenere
formano un piccolo tempio, diroccato
cimitero degli elefanti, in corsa
le automobili sfrecciano per celare
la pinguedine dei sogni degl’uomini
e se la macchina è una donna
– come scriveva D’Annunzio –
io me l’immagino, quest’uomo
della provvidenza, correre nella notte
nera, che attende di essere a bordo
della sua cara e devota Chevrolet
per piangere calde lagrime di vita.
Bevendo l’amaro dell’alba,
so poi si ritrova seduto in salotto
alle quattro, con la sigaretta spenta
tra le mani a contemplare
la sua scultura d’acciaio e pelle;
ricomponendosi dopo una serata stanca
egli ride, pasturando l’ultimo sorso
di vino scadente dal balcone, sapendo
che solamente quando sarà ricongiunto
sarà pieno e l’acredine potrà abbandonarlo,
come statico quadro astratto e consunto
appeso a muro; soltanto allora sarà umile,
soltanto allora potrà dirsi uno.
*
il dono
Beata tenace magnifica ignoranza,
tu che riesci a stupire i cuori semplici,
a far breccia negli avverbi,
lasciando bocche attonite e fedeli,
abbandona, per un attimo,
queste menti, falle correre libere,
scandagliale nel silenzio,
fai avvertire loro il brivido
d’un fugace desiderio
– non di pessimismo cosmico
o scenari apocalittici –
ma orizzonti sconfinati, praterie;
ora al pascolo, le bestie
non s’immoleranno dalla trebbia,
riunendosi in assemblee
e ‘l paese sfilando per le vie,
costringendo i macellai,
con sguardi accigliati e bovini,
a servire carne umana
per contentar la fame dei consimili.
Nell’ora in cui la bocca
solleverà dal fiero pasto,
con denti sporchi e mani insanguinate
a rosicchiare la polpa dalle ossa,
l’umanità tutta udrà il grido
per ciò ch’è stato fatto.
Allora, dolce oblio, tornerai
a ottenebrare le coscienze,
una pietosa ombra
stenderai sui loro sogni
e quando, ridestandosi dall’incubo,
saranno grati al buon destino
per non essersi compiuto,
guarderanno al nuovo giorno,
tracotanti d’innocenza.
Quale zelo, quale grazia,
questo dono.