Miracoli
Un cieco venne avvicinato, senza che se ne accorgesse, da Cristo: costui gli pose le mani sugli occhi e gli disse: “Ora puoi vedere”
“Ma io non volli, mai volli, fortissimamente non volli: mi ciecai da me”
(Forse per questo, solo per questo lo chiameremmo Edipo?)
Il fu cieco cominciò a piangere per ferire i lumi, e quel flusso salato divenne pozza. Eppure anche le lacrime finirono, non c’era modo di stanarne altre. Egli guardò la pozza, fissandola intensamente e in essa perdendosi, disperdendo così la molestia dello sguardo
(Forse per questo, solo per questo lo chiameremmo Narciso?)
Ma presto il sole prosciugò la pozza; fu allora che chiuse gli occhi come un felino dicendosi: “Posso adesso nuovamente vedere”
p.s. Ecco Cristo e i suoi miracoli: forse per questo, solo per questo lo chiameremmo Cristo?
Quando bruciano le labbra sulla fronte
Quando bruciano le labbra sulla fronte
L’ultima veste della sera è già mattina
E l’albero è trascinato giù dal morto
La tigre e l’usignolo hanno scambiato i loro versi
Lungo tracce di sangue rappreso
E sotto la radura gelata si innalza il cielo
Tu ruffiano che mimi le moine della vita
Con la molesta inquietudine del tarantolato
Tu sei capace di trovar la pace
Quando bruciano le labbra sulla fronte.
Se questo intonaco ci è venuto a noia
Qualcuno sarà un buon mercante
Ora la corda ha da rimbalzare ancora
Perché proprio tutto è disposto
Quando bruciano le labbra sulla fronte.
I rami ti scacciano da ogni regno
Tutti uguali i sentieri del bosco
Una luce! Non è niente davvero
Lanterne di alchimisti e cacciatori
Alle calcagna, operanti dalle abitazioni
Non mi spennellano d’orrore a sufficienza
Quando bruciano le labbra sulla fronte.
Per il forno, prima del forno
Io mai cotto a puntino
Schermarsi gli occhi da bagliori cremisi
Per la bizzarra tregua a sorpresa
Quando bruciano le labbra sulla fronte.
Le case
Vi aspetto nelle case che abitaste
All’ombra di un giardino passito
Con pietà, pietà per le sue scarpe
Se martellan orme quali
Che siano or mai d’ormeggerò
Lo spazio di un tempo
Risalirò in parallelo senza
Perpendicolarità
Saltimbanco, di volta in volta, di un’altra anima (mia)
Così sia
Vi aspetto nelle case che abitaste
E sono stato io oppure no a ritornare, futurare
E sarete voi a non trovare me
Per innecessità mia di credere o cedere a queste linee di contorno
Ogni direzione reticolare, adesso
Trapunta di un cosmo senza imputazione
Non m’importa fingermi importuno, dichiaro poi
Quando rientro in case che dicono non essere le mie
Altro che aspettare
Pietrificato, ibernato per stagioni a venire, immobili gli epicentri, eppure ai margini, tutt’attorno e dentro è un agitarsi come di insetti attorno alla luce
…
E quegli insetti a soffiare ancora stelle, alberi, vie
Che ci aspettano nelle case che abitammo.
Ipersensibilità
“Noi tesseremo placide pietà”, ripeteva
“Giacché sento troppo più di chiunque altro
E proprio come se ogni altro fossi”
Un giorno qualunque accoppa un passante
Senza fare una piega, composto e rassicurante
“Nulla scorre in un pensiero che non fa una grinza”
Ne deduce con sognante, cogitabonda malinconia
E poi: “Rimetterò allo spazio il tempo fino all’oblio”
Mentre le epifanie, per quanto egli dissangui il giorno
Gli corrono dietro a cinque zampe
“Indicherò infine quanto non si vede”, sbotta spesso
Ma se svela un astro è per arrostirsi la mano
E alla fanciulla che corteggia, audace
Mormora: “Non immagini di cosa sia capace”
Ebbra lei di ardore, come ai bimbi le fa il solletico
Disponendosi sazio sul letto con le braccia a croce
“Tutto qui?”
“Sì, firulà firulì”
E fischiettando prosegue:
“È tempo di scendere, mi aspetterò là
Come un sentire è davvero un sasso”
Invece è asceso, in mongolfiera, verso il freddo cielo
E fu da lassù che una voce immensa rombò
Riecheggiando nei meandri di stelle e nembi, nembi e stelle
“ Sono appena morto, e già succhiate le mie mammelle!”