L’ho visto farsi fra tanti più lento
(non era un setter e questo
non è un appartamento di Milano)
trascolorare il suo destino in mio,
trascinarsi a fatica per le stanze
aspettando vegliardo la morte.
Voci s’intrattengono ancora oggi
scaturite dalla strada, inumane:
sorte propizia o anni avversi
profetizzano, oracolando sul nulla.
. . . . . . . . . .
All’appello risponderete da rito,
una mano alzata, voce quanto basta
perché levato il capo, vinto
il pianto io riconosca in voi
quelli di sempre, davanti a un tempo che non vi consuma.
*
Reperti, ritrovamenti, lasciti.
La Parker di Silvana
in un cappotto vecchio
vent’anni dopo Silvana – proprio ora
che stavo per accettare l’assenza.
*
Una mattina è svanito il profumo,
ho affondato il viso nel suo grande
foulard bianco a pieghe, a balze,
quell’odore di collo amato, di collo
di nonna, prato dove crescere
è stato più che un giro di collana.
Aggrappato da allora rimasto così
quel pomeriggio di febbre felice
affidato alle sue magiche cure, guarire
è stato un gioco da ragazzi, lo sapeva
che Zorro alla televisione lo avrei sognato
per anni, qualcuno che rovescia
il tavolo della locanda…
Ancora aspetta la figlia che torni dalla Standa,
ce la siamo disegnata sul petto la grande Zeta
di zero carezze ora, zero cavalluccio, stretto
chiuso al suo petto ignoravo che fosse la meta.
*
. . .
. . .
Ti prego, caro, verso rovesciato
che ancora oggi parli degli assenti
che ombra o bosco tutti li comandi
gli elementi naturali e le ferite
che ci siamo dati per quel troppo
cresciuto in poca terra, vieni a dirci
che nel sogno ci aspettano altri baci
e notturni tragitti nelle camere
d’infanzia per quegli insegnamenti
elementari e illusioni che, direbbe
qualcuno, ci hanno spezzato il cuore:
:ma tu, in tua sovraesposta creazione
ricorda lo spettacolo del vento
dal mare, e altrove ostinato ricerca un amore lungo come il sempre.
*
A volte si sente una felicità
nella natura, un piangere
di resina sui tronchi, tramonti
che non ho meritato.
Mi sembra d’aver vissuto
sessant’anni in tutto.
Ho i secoli passati
a osservare la familiarità
della terra col mio viso
scavato presto, residuo e
promessa per l’alba – ma
quante ancora, e quanto
luminose e quanto chiare.
*
(che cos’è la poesia)
È un barlume, una storia segreta,
un parlare fitto di voci
che neanche sono più qui.
Calendari privi di date, alte e basse maree,
rapide e sponde. È nome che ad altro
nome risponde. È un indugio della memoria,
barlume e storia segreta. È musica del tempo che ci allieta.
Una profonda, sofferta nostalgia per significativi periodi d’una felice infanzia, mai più ritrovati nei vissuti successivi ove a prevalere sembra essere una costante melanconia di fondo, sempre e comunque contingente, sottolineata da eventi di certo non gratificanti. Dunque i bei ricordi di ieri a gratifica delle frustrazioni dell’oggi o dell’appena passato prossimo. Una forma di possibile, anzi necessaria difesa dalla realtà nuda e cruda qual si presenta. Infine la ‘scelta’ sfolgorante ed accettata senza riserva, che sembra di già stabile avendone garanzie intrinseche, della poesia come rimedio essenziale alla vita stessa con quel proprio esigente bisogno di senso. Un estenuante enigma esistenziale a valere per tutti, ovviamente.