Letargo
Ti addormentavi sghemba tra il geranio e la ringhiera.
Sussurravo piano il tuo nome, per non svegliarti
e tenerti in vita.
A volte nevicava, e avevo paura.
Poi, un mattino, bussavi discreta
alla finestra col tuo carapace,
e ti correvo incontro, cuore in gola
in mano un pezzetto di mela.
Ti lasciavi accarezzare, mite e rugosa
come la più amorevole delle antenate
sbattendo
al rallentatore
palpebre millenarie
gli occhietti scintillanti lungo sonno.
*
Avessi dato ascolto alla pioggia,
come s’avvinghiava nei vestiti,
ci tuonava nelle ossa,
non avrei avuto così tanta
paura di perderti.
È che l’occhio nulla sa della velocità
di pulsazioni spinte all’estremo,
né d’infinitesimali soluzioni di continuità
le confonde con l’eterno,
nel bagliore psichedelico del lampo.
E mi accade a ogni temporale,
questo miracolo così ordinario:
l’istantanea
d’essere e divenire
ovunque una folgore squarci
la trama, in una smagliatura del tempo.
*
Conosco il richiamo degli oggetti
cui non posso rinunciare
che non so portare addosso
hanno peso e spessore d’altro corpo
a distanza di salvezza
e trascinamento
vivono sotto stretta sorveglianza
abitano spazi tridimensionali
che lasciare è morire.
Poi, d’improvviso si fanno
sfondo silenzioso,
fluido ricambio d’ossa,
linfa vitale del respiro.