Sentire il peso dei corpi: d’essere polvere, gelido silenzio. Giorni di scomparsa – nudi sulla mancanza. Cifre, lettere o distanze. Parole, altre. Gioia e abbandono, nel profondo di una luce che ogni cosa cancella. Delle cose lo sguardo si richiude, ma dove? Poco di loro rimane. Il dramma dell’altezza: sconoscere la palpebra. C’è un che di inutile nel tardare la parola: la terra è la terra e la traccia precede se stessa.
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Testimone del trauma di nascere su tutto il visibile, lontani dall’increato. E l’informe: crollo tra le ciglia. Per non farsi abbagliare, l’invisibile si sotterra. Varchi verso voci perdute. Invisibile, lasciaci entrare.
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Nella mia testa ogni viso è un viso. Nulla che sia parola. Ogni voce è smarrita, prende impeto e affiora da chissà quale parte di me dove soltanto la mia rimane sepolta. Dopo è dimenticare che ogni cosa smetta la sua illusione; ma l’abisso è allontanarsi, proni a un morire sempre secondario. «Tempo» chiamate i corpi ammassati in un vuoto che copia e moltiplica, lingue conficcate nelle orbite, ogni origine che si ingabbi.