a cura di Filomena Ciavarella
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E quando chiuse gli occhi, le ruote smisero di girare sul suo corpo.
L’opera fu compiuta. I gabbiani, sulla spiaggia,
volarono spaventati, complici anche di quella morte.
Presto, nella notte profanata, altri teschi si unirono alla folla.
Gli uni attraversarono gli altri, alcuni toccarono gli altri:
la notte crebbe in un vomito di omero e tibia.
“Tutto, tutto fu compiuto.”
Ma non tutto fu compiuto: il mare continuava a sfiancare le rive
e un uomo stava morendo davanti a una luna senza fiato, assorta
Dissero che era venuto dal Nord, ma nessuno mai
Sapeva rivelare quando o per quale scopo cieco.
Ho dormito tra le rovine e rovistato gli uffici
Il sole azzurro di una carezza. C’era ancora tutto da fare
e voleva scoprirlo come madre o insenatura
che libera va attraverso i prati. La ferraglia
e le gru voltarono le spalle,
le case dove possono arrivare le lettere dall’Albania o da Detroit
Erano ancora in piedi nonostante la paura e il tarlo.
Quanta indifferenza spargevano allora i cespugli,
mentre il sud lo chiamava con un coltello tra i denti
e un ragazzo sdraiato sotto il sole sul tetto.
Senza fegato e senza cuore era già un tale monumento nazionale
come il nauseante palazzo di Venezia o il gesú.
Il suo era il graffito dell’enorme fallo sotto i ponti
del Tevere, una scia di sangue e seme che si versa nell’alba,
la dolce risata che correva da un palazzo all’altro mentre le lenzuola
cospirarono, rigide, nostalgiche, contro la sete del mondo.
Mancava tempo per i deboli, i pii e i semplici, i servili,
Dissacreranno il suo nome e celebreranno la sua punizione.
Le fogne di Roma presero le terrazze e il vecchio Tevere