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Clery Celeste – “La traccia delle vene”. Nota di C. Ragliani

Il tendere finemente alla morte

a cura di Carlo Ragliani

foto di Sandra e Urbano fotografi



La traccia delle vene (edizione Lietocolle, 2014) si mostra come una raccolta tanto “semplice” quanto letale. Svolgendosi in un “facilis descensus Avernus” virgiliano, per l’autrice tanto poca cosa è intonare lo iato alla vita (con una particolare predilezione – forse spontanea – alle piccole cose quotidiane da condividere, se non in una realtà matrimoniale, quantomeno di coppia, come per esempio quando ci è consentito di immergerci nell’io lirico dell’autrice per cui “prendo le maniche della tua camicia / e le risvolto con l’abitudine della moglie”) quanto lo è intendere la poesia alla sofferenza ed al dolore, accordando la cetra per comporre lo spartito “del dolore della vita”.
Innegabilmente il dettato di Celeste trae ispirazione ed origine dal mestiere svolto dall’autrice stessa, ed infatti l’opera si snoda in una tripartizione attraverso la quale la parola poetica – rectius, la figura del poeta – non differisce nell’esercizio della professione curativa dalla natura di sciamano, intessendo il farmaco alla parola che è medicina, in quanto entrambe le figure “architettano / la sopravvivenza altrui / morendo poco a poco.”, trovando nella morte – o nei morti – la voce per guidare i vivi. Ma non solo a questo si riduce l’opera.
Etimologicamente “traccia” è quanto viene tratto, e come tale la poesia di Celeste riesce a congiungere l’approdo dell’uomo all’ultimo orizzonte e la cura che la professione del medico comporta, ma è destinata ai vivi – anche quando malati terminali, per cui ci è dato di “saperli di un mese” – la dolcezza nel trattare la sofferenza “con la cura della madre”; anche se della più pungente, come quella della mancanza (per cui “Il tuo è un mancare continuo/ dal bordo del letto/ allo spigolo opposto della tavola.”) perché, se “tra tante parole / in una pressione di vuoto”, “gli immobili sono lì […] sui letti tutti uguali”, questi impulsi di tenerezza sono, e ben lo sa l’autrice, “un abbraccio / sul cerchio arido dell’ecosistema”.
Quest’affetto spontaneo – seppur quasi superfluo e d’intralcio al lavoro che svolge il poeta, in quanto il solo muovere “gli arti […] in automatismo” può essere il gesto che salva tra le mura dell’ospedale, per poter rendere il lavoro ad “un bel cerotto e via, togliersi i guanti lavarsi le mani e chiudere la porta in fretta.” – non può esser taciuto, nemmeno laddove “gli immobili” stanno così come “l’urina rimane a mezz’aria nel tubo”, sospesi “nel silenzio dei gesti”.
Infatti la dolcezza sboccia nell’atto amorevole verso il prossimo – probabilmente soffocando l’amor proprio dell’autrice, perché “io me li porto ancora dentro i morti” e “ma finisci il lavoro / e il dramma è essere bravi / non sentire niente” – dimostrandoci come fondamentale quella sensibilità per cui sia possibile scoprire un barlume di grazia, confermandosi – forse – come unico modo per tollerare quel disfacimento dell’esistenza per cui “La signora Rosa” “sarebbe la Carla Fracci del reparto / se solo potesse camminare”.
In termini medici le vene sono ciò che veicola il sangue, ed a quest’ultimo possiamo dare valore di ciò che mantiene in vita un corpo, scorrendo da quanto più intimo, seppur “gonfio di pannoloni” e “gli occhi pieni di umido”, a quanto di più di visibile, perché scorre come cosa più nostra “con i prolungamenti delle vene / che puntano dritto alla superficie”.
Per questo nulla può sottrarsi all’erompere dell’istintività dell’essere, e nella poesia di Celeste l’istinto naturale del protendersi al sofferente, nonostante sia estraneo, fuoriesce dalle mura della clinica per superare le circostanze e “la fatica di trascinarsi dal letto alla padella” per emergere come orma che si produce in una serie di “movimenti circolari” in cui il mondo interiore dell’io lirico non può che riflettersi nella realtà esterna, per poi ritornare come immagine arricchita del riflesso per completarsi, esattamente come un semicerchio che ottiene completezza solo quando specchiato.
Infatti “questo essere geometria” si manifesta ora sul “cosmo naturale”, ora sul farsi di quanto “quotidiano”, ora comprendendo molti elementi naturali tra cui gli animali ed il mare. Così facendo, il dettato dell’autrice non può che passare attraverso gli elementi minimi per prosperare, fino a manifestarsi come parossismo della grandezza, e bruciare nell’alto del cosmo “come una pulsar rossa” per poi ricongiungersi alla quotidianità “che noi amiamo” – perché “tutto il resto non si sa da dove passi / se dal mio cuore / arriva poi al tuo”, confermando “la traccia focale è al centro del mio seno.” – in cui la dialettica per “tornare al cuore / e fare circonvoluzione di respiri” debba necessariamente superare “il tendere finemente alla morte”.
In questo, la cura d’amore che l’autrice scorge nell’insieme delle cose naturali si conferma nell’affetto di “moglie” e di “madre” come il tratto che unisce “in nozze di acciaio e ghiaccio” la realtà, affascinando per l’innocenza con cui viene descritta la natura medesima quando si impregna di un’umanità che si produce e proietta oltre la possibilità di un mondo umano, come “la coppia di tortore” che “si sono scelte / per la vita”, oppure il “Birgus Latro” diventa “il mio amico Alex / quello down / lo zoppo / quello che piange se solo gli vuoi un po’ di bene.”.
In Celeste “c’è tutta la forza / del volersi dei corpi”, e la carne stessa diventa il tempio domestico per cui “un bacio che si poggia lento / sulla mensola delle labbra”; superando il “saperli di un mese” ed il “male comune”, perché vero e concreto, celebrando una poesia in cui “tradurre i cerchi che fanno i tuoi universi”.

Questa volta sono stelle nere
che tengo strette al petto
hanno punte lunghe
fino in fondo alla morte
e la traccia focale è al centro del mio seno.
Una piccola puntura ogni tanto il dolore dello sforzo
e ti ritrovi in silenzio
a sentir crescere questo figlio
che non è di nessun altro
e nonostante tutto rimane
anche quando la chemio
me l’ha portato via.


*


Il Birgus Latro è il più grande
grande della sua specie ma appena t’avvicini si
ritira tutto nel guscio
non si sa quanto ancora si potrebbe
raggomitolare. Un po’ come il mio amico Alex
quello down
lo zoppo
quello che piange se solo gli vuoi un po’ bene.


*


Noi siamo le cose non fatte,
i piani mai firmati,
il vorrei mai rientrato
a presente. Siamo la casa
con le fondamenta di carta,
siamo la generazione nuova
di batteri sintetici.
Eppure i poeti architettano
la sopravvivenza altrui
morendo a poco a poco.


*


Il tuo è un mancare continuo
dal bordo del letto
allo spigolo opposto della tavola.
Tutto prende la forma del grigio
le cose rifiutano la dimensione
piana dello spazio ma quando ritorni
le linee ritornano curve
nell’esatta sospensione del sorriso.


*


Prendo le maniche della tua camicia
e le risvolto con l’abitudine della moglie
che non sa ancora come gestire
questi tuffi degli occhi, mi arrivi in gola
e poi fino al cuore senza filtri
tutto intero nel tuo essere pieno
padrone del corpo. Guarda come ti respiro
forte, la pelle quasi l’aspiro.


*


Lo sanno tutti,
lo sa il caffè che si curva
sul bordo della tazza, lo sa lo zucchero
sparso che cerca l’altro
granello, lo sanno le tende rosse
che noi amiamo.
Ed è fuori che abbiamo solo panni
ben lavati perché il matrimonio
se funziona, lo si vede da lì.


*


Non ci siamo mai stati in quella pizzeria
dalla macchina così la raggiungiamo
l’insegna è un allarme lampeggiante
come una pulsar rossa
e mentre mi avvicino al tavolo
passo davanti a quell’altro
due sedie vuote
e i fantasmi di noi
sono già arrivati al dolce.

*

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