Nello scrivere queste righe sui testi di Pietro Polverini cerco di privarmi della prospettiva umana che a lui mi lega. Faccio questo buon esercizio che dovrebbe accomunare ogni persona si interessi di poesia, in maniera più o meno attiva. I testi che leggo raccontano un uomo, in primis. Lo fanno mai privi di quella densità semantica che caratterizza la scrittura di chi va oltre i significati, cercando una soluzione nuova fra le infinite possibilità espressive che la lingua italiana offre. Un tono perentorio e al contempo pacato, malinconico seppur assertivo, un lessico legatissimo alle sfere sensoriali ma a sprazzi trasognato, visionario ed indefinito. Una particolare sensibilità nel rivelare, soprattutto nelle chiusure :“[…] un tasto dietro / piantato sul collo / con su scritto /reset”, oppure “[…] lascia sbrigare l’innocenza dei fossili / a non so bene chi”, o ancora “[…] vacillavi per questo”). L’intenzione che è alla base di questa poesia è voler riconoscere l’altro e, nella propria voce, decifrare la “lingua intraducibile” che parla. Perché la poesia di Pietro è un incessante colloquio con una fissità, un’ ossessione, azzarderei, che si manifesta nelle forme più svariate ed emerge quando – e soprattutto – il poeta si trova faccia a faccia con la pagina. “Svelenivo l’ultima edizione del sogno”, che ritengo il verso più rappresentativo tra quelli qui mostrati per la sua capacità di rendere, a livello comunicativo, transitivo ciò che è desueto, è l’inizio di un testo esemplificativo della voce di Pietro (d’altronde cos’è la poesia se non il terreno dove si coltiva, innova e, in alcuni casi, crea la lingua?) Una motivazione come la memoria, quanto è vero che una poesia tratta sempre, in una maniera o nell’altra, del tempo che trascorre, è una motivazione degna di amore. Questa scrittura è testimone della realtà quanto, per aspetti formali, della tradizione. Una parola centellinata che ricorda, con capacità di sintesi, scelte lessicali trasversali, simbologie ricercate e sinestesie pregne come possa essere bello aprirsi alla lettura di – e al confronto con – un poeta dotatissimo ed inedito.
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apriti cieco heroico furore
sorvegliato antiquario in soffitta
alza su di me lo squillo del diluvio
stanzia la pioggia testamentaria
lascia sbrigare l’innocenza dei fossili
a non so bene chi
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non mi stanca lavorare se penso
alla tua notte fatta di incubazioni
non mi stanca pensare se lavoro
alla tua edizione in divisioni
iniezione di miniature turchesi
distrazioni fedeli
all’ossuto stratagemma
astuta disperante ora distinta
immersione, vacillavi per questo.
*
svelenivo l’ultima edizione del sogno
un barlume quieto in cui parlavi
una lingua intraducibile
riconducendo la tua comparsa
ad intermittenza sul lungo
canale acquatico del sonno.