Maria Grazia Insinga – Tirrenide. Nota di G. Martella

Corpo-fonema”: Maria Grazia Insinga, Tirrenide, Anterem Edizioni, 2020.  

di Giuseppe Martella

Quello di Maria Grazia Insinga è un esperimento unico nella poesia italiana contemporanea, o per meglio dire si tratta piuttosto di una esperienza unica. Perché la pratica di Maria Grazia si situa agli antipodi di quella poesia sperimentale che tenta di ricreare nel linguaggio verbale le condizioni della musica. Un tentativo, a mio avviso, per lo più velleitario e sterile come quello di chi, non conoscendo il linguaggio dei numeri, volesse riscrivere l’equazione fondamentale di Schroedinger per la teoria del campo quantistico: perché ogni linguaggio (e ogni medium) ha limiti espressivi specifici che costituiscono anche le sue risorse. Insinga invece è musicista: conosce e padroneggia altrettanto bene il linguaggio e la tradizione della musica colta quanto quelli della poesia italiana ed europea. Non tenta affatto dunque nei suoi versi di riprodurre effetti musicali né di tradurre i principi dell’armonia in quelli della metrica o viceversa. Siccome li possiede già entrambi, li fa semplicemente interagire in un dialogo aperto e mai finito, in un dramma verbale-strumentale che si riassume in modo esplicito, in una pagina di Tirrenide, nella tensione fra due simboli: il punto interrogativo “?”, unico segno di interpunzione che appare nel suo testo, e la lettera “f”, unico fonema evocato singolarmente nella sua difficile sillabazione. Il punto di domanda che sospende ogni dimostrazione e il grafema che più assomiglia a quella chiave di violino che definisce il valore delle note sul pentagramma: “questa la traduci in un numero di sillabe/ ma resta un altro il numero un’altra la musica/ non importa delle contaminazioni infili tutto nel bianco corno/ di chi di cosa e senza soprattutto i tagli a f a sorsi/ a tonnellate f senza f perdono senza fissa f tana/ sette volte sette senza f senso va bene così finita/ f adesso un po’ prima della parola f fine vedi?” (31)

Lo fà nella sezione centrale del testo, intitolata appunto “la recreazione”, e in particolare alle pagine 29-31, dove mette esplicitamente a tema quello che è l’asse strutturale della sua opera: la cesura/ponte modulante, quella di(a)fferenza fra i due linguaggi, musicale  e verbale, che emana quasi fisicamente dalla ferita o amputazione nel “corpo-fonema” (12) di quella Ligheia o Sirena che costituisce l’ipostasi dell’io poetico, la sua proiezione nel dramma onto e filogenetico dell’emersione della vita dal mare, così come di quella del continente del linguaggio dal suo fondale sonoro: Tirrenide.    

Da questa faglia/ponte dell’esserci, entro cui ripetutamente precipita e riaffiora l’anfibio della parola, da questo framezzo (Riss) che è anche perimetro (Umriss) fenomenologico del dramma della “voce corpo” emana la singolare poetica della nostra autrice. Il suo proprio “esser tra” due, il suo dialogo preterintenzionale (di-alogon) con l’altra sé stessa cui espressamente non rivolge neppure una dedica, come in esergo, dall’inizio, “nessuna dedica all’altra.” Ma che ineluttabilmente la abita, la ferisce e la feconda, la passa da parte a parte, facendola trasumanare, costringendola a una mai finita “re-creazione” attraverso la parola. A pagina 29 troviamo una ricapitolazione esemplare di questa liminare condizione poetico esistenziale, nonché di tutte le serie ondulatorie e sussultorie, delle variazioni melodiche e armoniche, delle immersioni ed emersioni delle “tuffatrici” congiunte, dell’intero mai finito trascolorare e trasecolare “tra l’una e l’altra”, che è la sostanza di questo poema: “scendere tra questa e l’altra trascendere/ facinorose e salire trasalire scellerate/e passare tra l’una e l’altra/ nell’altra come sempre la più commovente/ delle fessure e delle nature                    neppure la parola d’ordine/ riesce a mettere ordine trasecolare/ trascolorare qui supini i versi mancanti” (29)

E a pagina 31 l’intera vicenda, lo sfinimento reciproco dell’una nell’altra, del verso nell’accordo, della frase verbale in quella musicale, trova chiaro riscontro nella tensione simbolica, cui abbiamo accennato, tra il punto di domanda e la lettera “f” (iniziale della parola “fine” ma anche, credo, chiave di violino di un ideale pentagramma). Nonché nella esplicita dichiarazione di intraducibilità di un linguaggio nell’altro, dell’alterità irriducibile fra le scale musicali e i metri poetici: questi due modi complementari della tensione di un medesimo vissuto organico, di uno stesso corpo-fonema, bisogna perciò infilarli all’unisono nello stesso “corno” del rumore bianco (indistinto), ingoiarli e restituirli nell’amalgama di un’unica “recreazione”, (29) sul limite del visibile e del dicibile, sull’orizzonte di “iancura” dove appena si intravvede il profilo delle terre emerse, delle isole Eolie, al limite tra vita e forma, tra suono e senso – dal “punto cieco di non ritorno” (27), da quella Capo d’Orlando da cui lei, “finisterrea” vigila “fino allo spasimo”.    

Nella sua puntuale postfazione, Antonio Devicienti ci avverte giustamente che la musica sottesa a questo testo appartiene alla tradizione atonale del Novecento, e fa i nomi di Berio, Boulez, Stockhausen, esponenti insigni dell’ortodossia post-weberniana. A me vengono in mente invece altri nomi: Messiaen, Ligeti, Sciarrino, per esempio, compositori piuttosto eretici (rispetto ai dettami della scuola di Darmstadt), disposti anche a recuperare elementi della tradizione tonale, seppure attenti ad ogni sperimentazione. Il Messiaen che sa fondere il canto degli uccelli e gli strumenti elettronici; il Ligeti che riduce gli intervalli minimi, variandoli in modo tale che la sua micropolifonia diviene un prolungamento della modulazione tardo romantica. Lo Sciarrino che compone ai limiti del buio e del silenzio, dilatando lo spazio sonoro, da cui fa poi scaturire all’improvviso motivi e forme musicali. A questi autori, di cui ho subito avvertito la congenialità rispetto alla operazione di Insinga, si trovano poi effettivamente accenni nel suo testo. Per esempio, quello al “violoncello anzi cello” (nel titolo della sezione appena citata a pagina 31) che può ben suggerire la ricreazione strumentale del canto degli uccelli, caratteristica di Messiaen. Oppure la menzione del “corno magico” (10) che a me pare un chiaro riferimento al bellissimo “trio per corno, violino e pianoforte” (1982), dove il corno, strumento a fiato (più vicino alla voce umana), fa da mediatore appunto fra il suono continuo degli archi e quello discreto delle percussioni. E infine, l’inequivocabile riferimento a “Luci mie traditrici” (1998), opera in due atti di salvatore Sciarrino, dove si compie una sorta di operazione inversa e speculare rispetto a quella di Maria Grazia Insinga, traendo dalla soglia fra suono e silenzio, mozziconi di parole e imbastendo un dialogo votato allo scacco fra due amanti di temperamento incompatibile ma incapaci di sciogliere il proprio legame se non con la morte.     

Questi cenni mi sembrano sufficienti a suffragare la mia lettura di quest’opera anfibia, che d’altronde è iniziata con una prima sestina intitolata “dizionario verdiano” (8), che costituisce una aperta parodia della “ouverture”, in quanto forma sia operistica che sinfonica, e con la menzione della “voce corpo” e del bilinguismo organico (“sotto una lingua a rollarne un’altra”) di questa sirena che “scava intere città cammina sull’acqua”, compiendo una sorta di miracolo poetico esistenziale, s/componendo linguaggi ed elementi tra loro eterogenei, la musica e la parola, il liquido e il solido, il mare e la terra, scavando nella ferita aperta del proprio esserci, in un “sonnoveglia chiaroveggente” (38), nello sfinimento dei giorni, nell’aspirazione mai doma alla fusione e palingenesi delle sue due metà, al compimento di quest’opera di “mala grazia” (51) in un unico finale rogo purificatore (52) della sua anfibia “voce corpo”.

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