L’OLTRE DEL DISFACIMENTO DELLA CARNE: LA LIRICA DI STELVIO DI SPIGNO IN MINIMO UMANO. Il 3 giugno 2020 è prevista l’uscita del nuovo libro di versi di Stelvio Di Spigno, Minimo Umano, per i tipi di Marcos y Marcos. La critica e musicologa Edgarda Golino lo ha letto in anteprima per noi.
Sposando lo sguardo di Tommaso Landolfi, secondo cui la poesia non è da farsi con la poesia, né l’arte con l’arte, la narrativa con la narrativa, il cinema col cinema (e questa è l’unica via che generi capolavori), percorriamo il sentiero in prospettiva per elaborare alcune riflessioni sull’opera Minimo umano di Stelvio Di Spigno. Già l’introduzione, con ben tre Preludi, ci conduce in un viaggio sonoro, e non a caso la prima delle liriche è un omaggio ad Alfred Schnittke, compositore caro all’autore che, negli ultimi decenni del secolo scorso, si è cimentato, con una prolifica produzione, in una gigantesca meta-riflessione sul linguaggio musicale e sul fare compositivo occidentale, attraverso quel ben noto polistilismo declinato in tutte le sue forme storiche. Minimo umano, infatti, appare come una sinfonia dalle voci pluristilistiche, governate da un robusto rigore e raffinatezza, funzionali agli stati d’animo che riemergono dalla voce poetica come unico elemento foriero di dimenticanza, in un’opera fortemente radicata nella riflessione sul tempo e la sua sparizione.
Interessante è l’audace, non che oscena (cioè propria dell’etimo os-kenè), necessità di uscire dalla propria condizione d’esistenza, stato che reca all’io una fortissima sofferenza in quanto «il centro del mondo coincide con la circonferenza. Ma il mondo non ha circonferenza», secondo la massima citata nell’esergo del filosofo, astronomo e matematico Nicolò Cusano, posta volutamente a inizio di libro. Solo che nel nostro universo la perdita della massa, che è energia rallentata e dunque legata al movimento, conduce alla sparizione di ogni elemento e da qui, in Minimo umano, si sprigiona una ricerca metafisica verso una nuova possibilità esistenziale che approda al Cristianesimo. Il corpo-pagina del poeta, imprigionato nella sua condizione presente, è ben espressa nella omonima lirica Corpo, al quale l’io narrante, che omaggia Philp Larkin, si rivolge così: «adesso impara il disamore/ la posa declinante, la frattura/… Ma forse anche tu tornerai nuovo/ quando l’anima si staccherà da te/ e andrà dove tutto crea/ tu che non vuoi morire…/ brillerai per le strade». E da qui s’intuisce che è una visione triadica che riflette con pesante problematicità anche sul fare poetico odierno. E la posizione dell’autore è palesemente reattiva, come quella dell’ultimo Sereni, il cui manichino-poeta afferma incalzando il nostro tempo «Vesto il lutto per voi/ da dietro vetri neri/ con gli occhi mi risponde». Perché reazione e testimonianza di un’ultima traccia di minimo o massimo umano, si traducano appunto in corpo-pagina, si legga Sveglia anticipata: «la gara a essere umano, anche un minimo» (che dà titolo all’opera), aggettivi citati sempre nell’esergo, «perché il minimo necessariamente coincide con il massimo» del buon parmenideo Cusano, quando questi semmai sono complementari e matematicamente simili. E il lirismo è un urlo di disperante dolore umano, carnale, una preghiera verticale a Dio consegnata ai posteri, se ne rimarrà traccia, essendo, la carne, puro disfacimento. Dolore declinato in tutte le relazioni e i ricordi, nell’attrito col tempo presente. Sembra quasi che il poeta voglia consegnare al lettore il suo testamento o testimonianza di uomo e di poeta sulla tragicità del nostro vivere. Non si scorge futuro o speranza nel domani, consolazione che non sia divina. L’imbarazzo per tale pornografia dell’umano e del poetico, consegnata al lettore, è come la voce di un corifeo, anche se non mancano accenti di sentita levità come in Sprezzature: «sono nato/ in un piccolo alveare, mi cibavo/ di vendemmia e di ruggine».
A volte la voce poetica s’inabissa nel fosco e germina metafore immaginifiche e poesie dai ritmi precipitati o spezzati, come in Fragmenta: «È sempre lì, aria senza confine…la solitudine/ …isola liquefatta di quando ero/ bambino, in deserti peggiori/
ma c’ era chi apriva/ la porta della disperazione, la mia/ quella del mondo, che esistono / da sempre, eppure/ non davano pensiero» o come in Testimone: «Avanzerò da una foce all’altra/ sulla fronte il sigillo mattutino/ dove si chiude la vita a meraviglia/ però visibilmente, nell’ energia del passo/ di chi la prenderà dopo di me». Altre volte le immagini si alleggeriscono, si propongono terse e il ritmo si allunga in salmodia, come in Variante lombarda dove le acque del lago di Garda: «riflettono soltanto la mancanza/ che il pensiero ha di sé stesso», o nella lussureggiante Cameretta: «Irreale è questa stanza e il sogno/ che la contiene. Si allarga di notte/ fino a diventare immaginaria, non/ si vede più l’armadio, la porta, la vetrata/…La stanza /si fa enorme, sparisce ogni confine/ temporale, si vede solo un’età/ perduta come un rampicante», nella quale vigorosa è la fenomenologia della Corsa del tempo dell’Achmatova. E qui la forza visionaria della creatività poetica vince su quella fisica, la deforma, le dà un’altra possibilità di direzione, sia pure illusoria, come illusoria e fragile e dunque sempre in ricerca è la condizione umana, tant’è che il poeta all’inizio della sezione Mondo estremo pone questa citazione: «c’è abbastanza luce/ per l’occhio mio/ per voi/ la luce e l’ombra/ non differiscon più», tratto dal capolavoro del teatro musicale Ulisse di Luigi Dallapiccola. In esso il protagonista omerico, lungi dal restare l’eroe della conoscenza e della furbizia, dichiara di non aver imparato niente dai tanti viaggi fatti, ma che il suo cuore inquieto ora è in pace perché ha trovato il Dio cristiano, secondo un avvicinamento caro a Machado. Edgarda Golino
Somnium
Apprezziamo, in particolare, quelle vecchiette
rinsecchite, per le quali è normale sin dalla fanciullezza
cavalcare caproni notturni, o forconi, o mantelli consunti
e spostarsi attraverso territori immensi.
KEPLERO, Il sogno
Tendo la mano a una conca
inesplorata: sfilacciato dal ritmo
delle nubi, lo stesso cielo è diviso
secondo il fianco di osservazione. Come
un mare senza sponde, torna
in se stessa l’anima accecata, e perde
ogni insegna del giorno passato. Si sposta
un costone cadente e romba un tuono
come dall’aldilà. Ma non lo sento.
La vita continua negli ossari
o nel ricordo? Nella storia o nelle steppe?
con noi o senza noi? La risposta
a questi allunaggi della mente
è dovuta. Con parole troppo grosse,
talvolta, ma il silenzio non è ammesso.
Le tre di notte, fumo intorno al letto,
odore di brace dal camino. Ho abbracciato
l’amore di una donna a me uguale,
solo più grande e senza destino.
Vorrei restare in questo lago di grazia,
le palpebre abbassate, il petto lento.
Faccio a caso due passi, mi colpisce
come un sasso il gallo delle periferie.
Con ancora più sangue
il sole invalido piomberà,
come la vendetta di una iena.
Quasar
Se ci fosse un luogo dove gridare aiuto –
se l’ombra altrui non mi trapanasse il cranio –
se l’occhio di Dio non sapesse chi sono –
davvero i corridoi sarebbero interminabili,
e le case appannate così piene di luce
che i morti avrebbero un loro condominio,
andrebbero al mercato degli istanti
spargendo il loro addio a tutti i viali dell’universo,
con le mani sconciate e le sporte
impiastrate di frutta.
Ma la terra è divisa dal cielo.
Mancano da molto i questuanti, le vecchie
donne dalla voce ferma e quella porta
che spalanca su altre porte all’infinito.
Stringi le mani al tronco
del mandorlo fiorito, divora il verde
con gli occhi affabulati,
apri ogni orifizio agli ammassi globulari.
Un giorno il sole uncinerà alla cieca
il binario senza ascolto, la conca di pietre bianche,
sarà fatto il nostro nome palmo a palmo,
sorgeremo tra estuari, laghi e fiumi
a vita di carbonio o a canto delle stelle.
Lava bene le posate prima di ogni partenza.
Non guardare oltre la tua speranza, mai.
Stato delle cose
L’epilogo della tempesta
fu che tu, reclinata nella morte
che ti permeava
ogni pensiero, rarefatta e abbuiata,
ti allontanasti
dalla stazione di Latina
quasi in incognito.
Lì visitavi l’ospedale, sempre in cerca
di quella stessa morte
che vedevi tra corsie e camerate,
bella, insana e taumaturga,
come allora ti credevi – ti amo più
che posso, bambina mia mai nata, anima
abortita, raccolgo per te piastrelle e putrelle,
mentre il cantiere del nostro futuro si recide.
Provo a dire questa furia che è vivere,
l’assottigliarsi della mascella di sorriso in sorriso,
l’aria fredda che fa spessa la pelle in un abito di cera,
e questo morire che è in tutti, da decenni,
in un tempo scellerato e pazzo, come se
l’esistenza fosse un paesaggio
a tutti pervenuto e confinato altrove.
Una stringa di fumi e graminacee
si stringe a una galassia equidistante, a un’ossessione
generale, mentre l’umanità svuota
di se stessa ogni destino, anche il più bieco,
anche il più assurdo e declinante,
come una fanteria di ritorno
da una guerra mai dichiarata,
a interi popoli nascosta e ipnotizzata.
Emilia
In mezzo a un fulcro di case sorgeva
il bosco sacro di pini e pianeti primigeni,
dove senza impazienza ci incontrammo,
qualche volta – dove tutta la città, nel rogo
del sole, veniva a trovarci, la sera benedetta.
E ora del sole tu hai la stessa faccia
lucente, la stessa veste con le frange
e il cappuccio, le scarpe con le fibbie,
la borsa e il mantello del sorriso.
Anche tu sei partita, puntando i piedi,
l’ultima volta che hai pensato alla vita,
che fu una stradina giovane di campagna,
dove venivi a fare il bagno con noi,
in agosto, profumando soltanto
di stelle di mare. E così ti ricordo,
povera nelle cose e nei gesti, giusta
in ogni azione, nelle parole di un sapere
che abbracciava, così flessibile, come
la stessa bontà non sa di essere.
Come resterai per sempre, ricordando
le patrie brevi dove fummo insieme,
Torregaveta, Napoli, Gaeta,
l’inverno seduti, l’estate in movimento,
gli occhi stranieri fissi alla verità
che il mondo non sa più di avere, perché
sei lontana e tuttavia perfetta, la piccola
donna che amava ogni cosa, dentro
la scia notturna di un cielo pacificato,
senza visioni, solo di carità, eterno.