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Fabrizio Bregoli – Notizie da Patmos

A cura di Alessio Vailati

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La parola per chi scrive è strumento essenziale, il mezzo creativo con cui raccontare, descrivere, divertire, approfondire. È uno strumento soltanto apparentemente facile forse perché rappresenta il codice di comunicazione più comune, quello con cui quotidianamente ci si esprime. E questa apparente facilità nasconde la vera e propria insidia: la possibilità del travisamento, addirittura dell’incomprensione. La parola per il poeta è qualcosa di più: è una sorta di talismano, di passe-partout, di formula magica con cui tentare di aprire nuovi scenari, di lacerare il velo dell’apparenza e andare oltre. Il poeta spinge la parola oltre ogni suo limite.

In “Notizie da Patmos” di Fabrizio Bregoli, la parola cerca costantemente un appiglio razionale, oscilla fra l’idea di sprofondare, fino a perdersi, negli abissi dell’esistenza, nei golfi d’ombra della conoscenza e di riaffiorare, di dare ordine al caos attraverso le certezze della scienza e della matematica. Eppure sempre si avverte una carenza, un vuoto da colmare. È questa la traccia attraverso cui Bregoli si muove. Lo fa percorrendo un binario che si schiude su due piani o livelli, la cui sintesi è chiaramente ed espressamente indicata nella prosa di apertura (p.11), una vera e propria introduzione: “Ho sempre avuto il tarlo delle scienze esatte“, si legge e poi come a sottolineare l’inadeguatezza di queste ultime ecco emergere qualcosa di più completo: l’algebra. Analogamente la poesia.


L’algebra nasce per ampliare l’orizzonte dell’aritmetica” e dopo ancora “l’algebra assolve a questa funzione correttiva, a integrare una mancanza fra mondi isolati, divisi“. Non c’è possibilità di equivoco: il presupposto è quello della mancanza per perdita originaria, per separazione alla radice e la conseguenza è il tentativo di riavvicinare i lembi lacerati. Di chiudere una ferita. Di trovare la formula (poetica, algebrica) che possa ricomporre e cicatrizzare. E il libro si apre sotto la solenne formula “Nel nome del padre“, la sezione che di fatto ci mette nel vivo della raccolta poetica, ponendo subito all’attenzione del lettore la figura che rappresenta il fulcro del discorso: il padre. Ed è una figura contrastata, una presenza negata che perciò crea una tensione irrisolvibile e irrisolta, la medesima che percorre il midollo del titolo del libro e che ci dice – come ben argomenta Piero Marelli nella prefazione – del “compagno di strada in attesa di un annuncio, un miracolo, una rivelazione”.

Se il padre è radice personale e individuale, altra radice viene implicitamente evocata nei nomi dei padri della fisica dei quanti, nominati nella sezione “Digressione quantistica”: si tratta di quella radice o matrice o legge universale da cui origina la realtà stessa. Ecco, dunque, il secondo livello – a cui si accennava in precedenza – attraverso il quale si snoda il concetto di separazione, privazione o mancanza: l’inaccessibilità alla conoscenza delle ragioni esistenziali. A ben vedere la scelta della meccanica quantistica, per un cultore delle scienze esatte, è rivelatorio: quando passiamo all’esame delle particelle subatomiche le regole tradizionali della fisica non valgono più. La scienza da esatta diviene calcolo probabilistico. La ricerca, spinta oltre i limiti più noti, è quella che un giorno portò Einstein a porsi un freno e a ritenere certe conclusioni quasi inaccettabili.

A fargli infine esclamare che “Dio non gioca a dadi con l’universo”. Il senso di incompletezza e di mancanza, seguiti dal tentativo di ricomposizione dell’intero è la frequenza costante con la quale vibra il sistema circolatorio di Notizie da Patmos, in ogni sua sezione e con un alternarsi di prosa poetica e di poesia. Il confronto fra la parola e i silenzi, fra il pieno e il vuoto, il tutto e il nulla si fa serrato, non concede tregua e sembra non trovare una fine (un fine?) né rivelare la via di uscita.

Tutto questo viene reso da Bregoli attraverso una scrittura densa, diretta e impreziosita da termini scientifici, con un tono discorsivo che si fa spesso drammatico o nostalgico o semplicemente rassegnato ma che non esclude a priori l’impiego dell’ironia in alcune situazioni. Pur avendo come orizzonte una riflessione così articolata, il ricorso a immagini legate alla terra, alla natura e la citazione di poesie, film, canzoni contribuiscono alla costruzione di una poetica concreta, fatta anche di carne e sangue, di tempo e di spazio, una cartografia con coordinate precise. Ecco allora che la parola quasi si identifica con lo sguardo, capace di accomodarsi secondo le distanze, di stringersi o dilatarsi per abbracciare in sé tutto quello che corre fra i due estremi dell’attimo e dell’eterno.

Un’ultima non meno importante annotazione: non bisogna dimenticare che Patmos è un’isola, concetto che allude all’isolamento e alla solitudine; ma è anche l’isola dell’esilio di S. Giovanni l’Evangelista, quindi dello strappo imposto e doloroso, nonché il luogo in cui il Santo, secondo la leggenda, scrisse il Libro della Rivelazione meglio conosciuta come il libro dell’Apocalisse. E così il cerchio si chiude.

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Heisenberg

L’imbroglio è sempre la luce, quel suo
scalfire i corpi, sbozzarli dal nero
ordinarne regole, spazi.
Travolgerli nel loro buio esatto
con la sua lama buona,
obbligare i volti a intridersi.
Illuderli che siano conoscibili
a misura di un noi inesplorato,
fingere emendabile la frattura
l’indeterminazione sanata.

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ISTRUZIONI ALCHEMICHE PER IL COMPOSTAGGIO

Raccogliere e impilare sfalci d’erba,
gusci di noci, fondi di caffè
filtri del tè, ossa, altre immondizie buone.
Rivoltare due o tre volte l’anno, piano
per riattivare il ciclo del silenzio.
Di quando in quando innaffiare, aggiungere
qualche altra scoria, emersa da uno specchio
dimenticato. Pressare a dovere
come a reprimere un singhiozzo buio,
un ricordo di frodo.
Poi maturare a fondo, concedere
varco al tempo, alla sua lama gentile.


Talvolta – dopo un terremoto d’anni –
vi affiora una poesia.

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SEMPRE E SOLO UN’IPOTESI

Sempre e solo un’ipotesi, un respingere
laterale, come fosse un intruso
a porgere la mano, osare spazio.
Esige questo, uno scendere a patti,
la sua sintassi opaca, risoluta.
Basta poco, quella macchia sghemba
che s’arremba alla pelle, come un fiordo
buio appeso alle labbra. O un affiorare
lento, come da una matrice antica,
di un conto che non torna,
un ammutinamento delle cellule.
Perché in sostanza siamo quest’estrudersi
del corpo, ambire a senso, direzione
a una misura che si compie.
Ardire un passo in più, un verso oltre.

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GEOGRAFIA DI CONFINE

Avevi la passione dei confini
tracciare fronti di demarcazione,
la loro geografia compiuta. Solida.
Per questo t’affidavi alle cartine
quella certezza di valichi e passi,
ciò che serve a dare ordine alle vite,
fosse anche un limbo nel deserto, un muro
una zona demilitarizzata.

A noi non è servito confinarci
ciascuno in un cordone sanitario
perché c’è sempre una metà che manca,
l’amore che rimane impronunciato.
C’è bastato credere
franca una terra di nessuno, noi
intatti territori d’oltremare,
colonie di un’uguale solitudine.

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