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Giorgia Deidda – Poesie da “Sillabario senza condono”

Disinnescato l’attimo in cui
io ero preda del vuoto, ho ricreato specchi per buttare sassi al mio volto,
ed odiarlo fino a farlo diventare scarno.
Nessuno sa l’inferno,
di avere un manto prezioso e non poterlo far vedere,
di indossare collane con gli artigli mentre
il sangue sgorga viscoso e lento su tutto il corpo.
Dio, mi perdono per tutte le promesse, giuro che non ne
farò altre, disegnerò il bianco del mare e la sua spuma
e poi mi rannicchierò nella paura,
l’ultima cosa che mi tiene in vita.

Io non voglio morire ma se possibile,
offritemi un piatto abbondante,
dove le stelle si riuniscono per farmi camminare,
e dove le bottiglie di vino sono ancora piene
e io non ho alcun bisogno di farle sparire.
Dio, ridammi il piacere del gusto, ché l’ho perso di nuovo,
ha lasciato spazio ad un’ignominia e scalfita sorte, e io la
protagonista
che mi barcameno senza sosta.
In fondo ciò che chiedo è requie, senza morte,
perché io voglio vivere e sentire ed amare – ecco quello che mi manca –
e stringere con le mie dita qualcosa che non sia più etereo ma che abbia forma.
Fammi essere me stessa, o cambiami, trasmutami,
fa di me quel che vuoi.
Intanto, riposo.

*

Il fumo sui pinnacoli, la bellezza resta ed è deformata
mai perfetta, ha in sé gli sfilacciamenti della vita
e si trasforma, evolve, non rimane mai uguale a se stessa, lascia che siano gli eventi a circoscriverla.
Così dovrei fare anch’io, sotto la campana di vetro, per paura che mi scalfiscano
e diventi tutta una bruttura; le cose cambiano, ora e subito
mai attendere che il cielo smetta di pioversi addosso,
o che le ossa rinsaviscano al solo pensiero.

E se guardavo al di là delle cose vedevo solo un niente riempito di stoffa,
e da quel niente io diventavo materia incandescente
una lava inarrestabile che bruciava tutto sul suo cammino;
però piangevo, eccome se piangevo –
lasciavo che le lacrime acide e salate mi bruciassero il viso,
volevo diventare un Picasso al contrario,
storta dalla guerra ma uniforme nel viso,
e segnavo sulle spalle colori accesi,
blu violacei
mi dipingevo tutta;
l’arte è atto unico,
mai solitario, sempre accompagnato
dalle bruttezze
e voi pensate che sia solo, guardate
sotto terra e vedrete quanta sozzura si nasconde
sotto la grande, unica bellezza.

*

Quando parlavo con te
non chiesi mai chi eri;
mi bastava delineare i contorni dei tuoi occhi minuti per scorgervi l’essenza, il nocciolo, la luce. 
In quei giorni non mi importava di trovare il senso
ché il senso era disperso come odore di fiori tra l’aria,
il senso era noi che ci abbracciavamo e ci davamo la mano timorosi,
e tutto il mio corpo vibrava e si incollava sempre di più al tuo.
Nel teatro di infiniti vaniloqui io cedo,
mi abbandono al flusso degli eventi,
– fate di me quel che volete, ve ne prego,
sono stanca di combattere, – 
aspetto l’ultima nota per accasciarmi
e salutare chi mi ha fatto del bene,
chi ha riso delle cose impossibili,
chi ha tracciato il cerchio magico dentro il quale io mi sentivo protetta,
e chi ha respirato in silenzio.

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