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“Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda.” Il monito con cui Italo Calvino ci consegna le chiavi delle sue città invisibili offre anche un grimaldello per avvicinare la scrittura, lieve e precisa, di Carla Viganò nella silloge “Ritocchi marginali” pubblicata da Lepisma Floema, dove Milano, città di nascita e di elezione dell’autrice, diviene luogo di frontiera tra mondo “psichico” e mondo “fisico”, paesaggio urbano, e non solo, da attraversare, fuori da ogni retorica turistica e commerciale così come dal passo frettoloso del pendolare.
Lo sguardo della Viganò non indugia sulle sette o settanta meraviglie della metropoli e, qualora anche vi indugiasse, sarebbe per coglierne i dettagli che sfuggono ad un occhio pigro e distratto, si nascondano essi in un gesto minimale, in una breccia nel muro o in una latitudine poco nota.
Fuori da ogni retorica, per l’appunto, ma fuori anche da ogni denuncia politica e sociale, la parola che la Viganò rivolge alla sua città “fredda e gentile”, come lei stessa precisa in una sua intervista, è piena di un’amorevole e caritatevole indulgenza: una pietas contemporanea, che sa sentire ed accogliere “l’altro”, ossia l’alterità in qualunque forma possa manifestarsi.
Fuori anche dalla facile nostalgia di chi inforca le lenti del passato per osservare il presente e, con un sentimento di rammarico e rinnegazione, confrontare un prima con un dopo; la scrittrice accetta, di contro, di assumere – vivendoli – i cambiamenti che accompagnano i luoghi che hanno caratterizzato la sua stessa crescita e che, se pure sono mutati, non per questo le diventano estranei o irriconoscibili.
Ecco che allora la città perde, poco a poco, le sue vestigia metropolitane per mutarsi in quel “tu” amoroso cui la parola della Viganò tende in continuazione, come un orizzonte mai definitivamente sperimentato e che mai potrà esaurirsi o esaudirsi. Un appello alla memoria, se pure c’è, è in chiave conciliativa e non esenta dal porsi di fronte al mondo e a se stessi, accettando la sfida del cambiamento, benedicendolo per certi aspetti.
Forse per questo i versi paiono scivolare e incastonarsi uno sull’altro in un pluviale di immagini, suoni e parole che eludono le restrizioni della punteggiatura e di cui è difficile rintracciare l’origine e, ancor più, una conclusione. Ciò che si scrive è causato da altro, da un altrove, cui la città fa da specchio, e precipita in altro ancora.
“Ancora” – come afferma Lacan – è la parola dell’amore e Carla Viganò sembra, a sua insaputa, avere fatto propria questa lezione (“e diventiamo tutti un fiume trasparente/e quando beviamo acqua/beviamo amore amore amore”).
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vivere affatica la memoria
e ogni giorno salvare
la tortora e le sue ali
in viaggi a vista
è volare in violacei rifugi
e l’ombra rafforza la luce
mette alla prova il tramonto
una striscia di rosa indifferente
tutto come si vuole senza voci
senza croci
un’altra sete ha tempo
di sapere perchè s’indebolisce
la corolla senza ramo
Non c’è luce e
nel confine di scambio
s’impara a vedere a occhi chiusi
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Non sapevo a cosa servisse il cardamomo
e nemmeno come conservare i nostri luoghi
nei giorni dell’essenza quando insieme
convolare in posti convenuti
era frodare un precipizio
-per noi nati sull’orlo di un enigma –
imparare a vedere coi tuoi occhi
è stato di quello che chiedo a me
accettare il rischio della metà rosata
non scie porpora -non la pena del distacco
e poi sai non voglio lasciare questa terra
nemmeno le abitudini incurvate
complici le une delle altre
quel poco di vento che mi sposta
tra il volerti e l’allontanarti anche
quando ci sfioriamo in ferite chiare
per negoziare o una clessidra o un bacio
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cielo azzurro a Milano
in solitudine sulle tribune deserte
mi crogiolo a un sole antico
e ne avevo tanto bisogno
Forse sono seduta al posto di Hemingway
dovrei essere vestita di velluto
in testa un basco spiovente
tanto rimmel sugli occhi
– con i colori di scuderia
abbinarmi alle tinte vincenti –
un flute per me e whisky pregiato al maestro
e tirarmela un po’ al suo fianco
E forse dovrebbe piovere
quella pioggia sottile che tanto manca
che irrora il glicine al pesage
con l’inverno che ha assetato le piste
e i cavalli che profumano di kashmir
nell’incauto mio pensiero oggi
che i monitor giganti hanno licenziato
il binocolo e io sognatrice
ho una lente speciale d’osservazione intima
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quando solo con me stesso
scorre la bellezza e resta fermo l’io
riemergono le lucciole d’infanzia
e di sera la luce nei prati
imprevedibile e spenta su se stessa
insegna agli occhi a
tradire con il sole le parole
plasmarle di costrutti artificiosi
– una sfida così triste
resistere alla loro libera scelta –
che poi la loro voce nuda o vestita
abbia freddo è condizione che
al cielo non importa
non se ne accorge tant’è azzurro
e solo in certi giorni
in altri il mio metallo affonda nelle nubi -tace
l’abitudine ribelle di parlare
composta come in un canneto verticale
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nemmeno il tempo di toccarsi
di due bolle d’acqua
e i poeti di vent’anni
hanno capelli bianchi