a cura di Beatrice Orsini
Si entra nella vita passando – necessariamente – per l’anticamera della morte. Ne consegue che, ancor prima di nascere e poi da vivi, l’orizzonte della morte ci precede e pervade la nostra esistenza, non come termine ultimo ma come presenza costante, quotidiana – seppur aliena, per i più. Di questo incontro primigenio e inevitabile, la poesia di Vladimir Damora ne porta ripetutamente il marchio e non nel segno del rifiuto: accettarne la possibilità, accoglierne la sua realtà, permette di farne una compagnia familiare, senza tuttavia connotarsi in termini di rassegnazione o di rinuncia alla vita. E la vita cui tendere, per il poeta, non può ridursi ad una finzione borghese, che si accomoda dentro binari e mete prestabilite in cui la perfezione non è portatrice di alcuna verità (in una prossima stagione, geometricamente, noi scopriremo/ che la lotta non è finita./ saremo usciti a comprare un gelato perfetto/ e avremo sognato di acquistare una casa/ forte di mare e come finzioni d’agosto. determinazioni borghesi/ e salti/ da una condizione umana, a una specie di bordello quantico,/ l’avremo sprecato intero, ogni patto/ con il vortice ribelle e coi vetusti interessi di tipo: nel medio/ dell’immagine solo la distruzione, la sopravvivenza nel morire.). Al contrario, il corpo fa da tramite per incanalare, vettorializzare e indirizzare in un dire l’esperienza che ci permea e da cui siamo altresì sopraffatti, poiché nelle pieghe delle sue reazioni anatomiche noi siamo, irrimediabilmente, esposti e nudi: dunque veri.
Pornogrammia, appunto. Ossia cercare la vita, i suoi residui, nel reale dei corpi, nel miracolo, seppure breve e mai garantito, di un loro incontro. A significare che l’amore non è un ideale da perseguire, ma necessita per essere tale dell’incontro con un corpo altrettanto desiderante e intaccato, a sua volta, smangiato persino, da quel preambolo che ci introduce alla vita, dove manca qualunque Dio e, se anche ci fosse, non potrebbe che essere impotente e indifferente, pertanto perfettamente inutile ad un nostro appello.
Dal corpo che gode alla parola che manca: l’invenzione linguistica che fa Damora lo costringe a una continua decostruzione sintattica, a cortocircuiti e salti semantici, veri e propri depistaggi per il lettore che spesso non può che esserne disorientato, costretto a inseguire una parola, un dire, che continuamente sfugge e si sottrae. La perdita di senso, lo smarrimento di significato, si accompagna, però, ad un altro guadagno, come se, nell’accettare il rischio di immergersi nel fluido linguistico dell’autore, il lettore ne possa uscire recando in sé la traccia feconda di questo stesso bagno.
*
te ne andasti come l’acqua che risale, giovane
giovanissima la vita che chiedeva
la vita dava mentre da lontano, nelle vicine
stanze di noi di un occidente gonfi o dell’informazioni stabilite
scorrevano pallottole speciali, un’intelligenza
di teocratico sopore, come se dio
contasse i corpi
coll’asprigna civiltà, in tutto questo morire.
*
Solo l’altro godrà della rottura.
Noi siamo uniti da luoghi impossibili
e nei tempi rapidi della parola
d’ora. Se togli al mondo la creazione dell’istante condizionando
l’intero corso, sopraggiunta illusione, gioia si insinua sola
nell’opera, e nell’incendio è un dio anche la cenere.
*
Perché è sentire un reale,
quello che provo di te. Nel nulla
di modi e parole, la mia figura
è mutata in secreta flagranza. E cambiano
e sentono vita le superfici ingrossate,
la crosta vitale che
m’insiste a nascita dura, mentre insensato
mi affogo in ogni piega di questo messaggio già immenso
e lo spingo.
Nelle tue carni – una sorgente che nulla figlia.
Ché solo nell’ora godiamo, io e te,
di questa collana di labbra
marziane, i segni
oceanici poggiati sul pezzo venoso,
degnato da vento fedele
e d’invasa
festa dall’ora,
da ogni tensione rimasta.
O com’è impossibile quando ti guardo
vedendo girato, allo spazio assolato,
il tuo bagno di forza
è un fertile grammo di cose
*
E a volte
sei trottola proprio,
che vortica come la voglia striata di luce di latte
volendo solo, dalle tue zinne,
cavare l’essere io uomo e il fiato e il cazzo
cucito alla mano,
alla nostra porzione di dire:
I morti soli ho però
e i morti
se tornano, come incredibili fantasmi
tu lo vedi,
la luce è corta.