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Emily Dickinson | Quella rara e strana creatura

[n.d.r.] Sabato 15 maggio 1886 moriva Emily Dickinson. Centotrentacinque anni dopo il 15 maggio cade ancora di sabato: per ricordare «quella rara e strana creatura» vi proponiamo un brano tratto da Tra di noi l’oceano. Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson, di Mattia Morretta, uscito appena la scorsa settimana per il gruppo editoriale Viator: «Un manuale di sopravvivenza culturale che propone il metodo Emily per non soccombere nella globalizzazione: la capacità di incontrarsi nel profondo, l’audacia della differenza, la libertà morale. La vita vista dall’angolo immaginario dell’arte e della poesia».

a cura di Giorgio Ghiotti
di Mattia Morretta

Il 15 maggio del 1886, sabato, “prima dei fischi delle sei”, si spegneva Emily Dickinson, senza ultime parole, aveva perso conoscenza alle 10 del mattino due giorni avanti. Uno dei suoi ultimi messaggi era stato inviato a Louise e Frances Norcross, laconico e plateale: “Cuginette, richiamata. Emily”. Called Back, la formula che compare al posto della dicitura “morta” sulla lapide visibile nel West Cemetery di Amherst (Massachusetts), all’interno del piccolo spazio erboso che ospita le tombe dei Dickinson. La lastra marmorea è addossata alla recinzione, tanto da far pensare al suo slancio nel 1861: “Se spalancassi il cancello di carne – e l’oltrepassassi per evadere – verso di te!”. È Susan Gilbert, la più intima amica e cognata, “la sorella nella casa accanto”, che pure non va al funerale per non incontrare l’amante del marito, a preparare la bara con rami profumati e a redigere un anonimo necrologio, comparso sullo Springfield Daily Republican il 18 maggio, nel quale la paragona al balenare della nota di un cantore nei boschi di giugno a mezzodì, che si può udire e non vedere: “La sua arguzia era una lama di Damasco scintillante nel sole”.

Vestita di bianco nella bara bianca, violette sulla gola, nelle mani due eliotropi, Thomas Higginson, che durante la cerimonia funebre declama i versi di Emily Brontë più amati da Dickinson (Non è vile la mia anima), la descrive nel diario la sera stessa (mercoledì 19 maggio): “Quella rara e strana creatura, il volto era quasi una meravigliosa restaurazione di giovinezza, aveva cinquantacinque anni e sembrava averne trenta, non un capello grigio né una ruga, e una pace perfetta sulla bellissima fronte”. Il funerale passa per i campi e non dalla pubblica via per sua esplicita volontà, avendo desiderato l’accompagnamento dei botton d’oro nel tragitto verso il camposanto, benché le testimonianze parlino di viole e gerani selvatici. Nel 1862 l’aveva prefigurato immaginando la stagione in cui il grano ha la spiga, le mele rosse, i carri col carico di zucche, chi l’avrebbe rimpianta di meno, forse il babbo avrebbe aggiunto un piatto a tavola il giorno del Ringraziamento. Per contrastare il dolore si era augurata l’inverso: “Come proprio di questi tempi, in un anno perfetto / sarebbero loro venuti a me”. Some perfect year

Che esseri tali siano morti ci consente
di morire con più tranquillità –
Che abbiano vissuto,
attesta l’Immortalità


(n. 1030, 1865)


Mattia Morretta, psichiatra e sessuologo, ha una storia di costante impegno educativo e sociale, collaborazioni con enti pubblici, associazioni, radio e riviste. Ha pubblicato saggi di approfondimento psicologico e culturale, tra i quali: Questo matrimonio non s’ha da fare. Crisi di famiglia e genitorialità (2019), Viva Dalida. Icona immortale (2017), Tracce vive. Restauri di vite diverse (2016), Che colpa abbiamo noi. Limiti della sottocultura omosessuale (2013), Il percorso del morire (1995)



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