a cura di Mattia Tarantino
traduzioni a opera del curatore
[n.d.r.] Tra il 2019 e il 2021 queste traduzioni sono apparse su Menabò, Iris News e Poetarum Silva. Le riportiamo, da oggi, anche tra le pagine della nostra rivista. La seconda e ultima parte sarà pubblicata martedì 6 luglio. Per i versi in lingua originale cfr. Dylan Thomas, Collected Poems 1934-1953, Everyman, London, 1993 oppure The Poems of Dylan Thomas: Centenary Edition, New Directions, New York, 2017.
Questo pane che spezzo
Questo pane che spezzo una volta era avena,
questo vino su un albero straniero
precipitava nei suoi frutti;
L’uomo di giorno o il vento a notte
piegò i piccoli raccolti, spezzò la gioia dell’uva.
Un tempo in questo vino il sangue dell’estate
bussava nella carne che addobbava il vigneto,
un tempo in questo pane
l’avena stava allegra nel vento;
l’uomo spezzò il sole, abbatté il vento.
Questa carne che spezzi, questo sangue che lasci
rovinare le vene, erano avena
e uva, nate
dalla lussuria della radice e della linfa:
bevi il mio vino, rompi il mio pane.
Prima che bussassi
Prima che bussassi lasciando
entrare la carne, con mani fuse a pestare
il ventre, io che fui informe come l’acqua
che tracciava il Giordano accanto casa mia
fui fratello della figlia di Mnetha
e sorella del verme capostipite.
Io che ero sordo a primavera ed estate,
che non chiamavo sole o luna per nome,
sentivo avanzare sotto l’armatura
della mia carne aggrovigliata le stelle
plumbee, il maglio piovoso
scagliato dalla grande casa di mio padre.
Compresi il messaggio dell’inverno,
le frecce della grandine, la neve
bambina, e il vento
attraversava mia sorella;
il ventò balzò in me, rugiada corrotta;
le mie vene attorcigliate all’Oriente;
non nacqui, e conobbi il giorno e la notte.
Tuttavia, ingenerato, fui testimone;
torturate dai sogni le mie ossa liliali
caddero contratte tra i sussulti di un libro
antico, e la carne
fu tagliata a incrociare le linee
di croci da mannaia sul fegato.
E rovi, nel cervello grondante.
La mia gola conobbe la sete prima del tempio
di pelle e di vene intorno al precipizio
dove parole e acqua formano una mistura
infallibile nell’incedere del sangue.
Il mio cuore conobbe l’amore, il mio ventre
ebbe fame, e sentii
il tanfo del verme nelle feci.
E il tempo scaraventò la mia forma
mortale alla deriva, oltre le acque;
esperta, all’avventura salata
di maree che non conoscono rive.
Io che ero ricco fui reso il più ricco
trangugiando il vino basso dei giorni.
Io, nato di carne e spirito, non fui
né spirito né uomo, ma un’anima mortale.
E fui straziato dal fiore della morte.
Io fui un mortale fino all’ultimo
sospiro che recò a mio padre
la parabola del suo Cristo moribondo.
Voi, genuflessi alla croce, all’altare,
abbiate memoria di me e compiangete
colui che per corazza usò la mia
carne e le ossa.
E ostacolò, feroce, il ventre di mia madre.
Amore in manicomio
Un’estranea è venuta
a condividere la mia stanza in questa
casa assurda, una ragazza
folle come gli uccelli
che spranga il buio della porta col suo
braccio, con la sua piuma.
Stretta nel letto aggrovigliato inganna
la casa a prova di cielo lasciando
che entrino le nuvole.
Poi inganna camminando la stanza
da incubo, larga
quanto i morti, o cavalca
gli oceani immaginari dei reparti maschili.
Venne invasata
colei che permette dal muro rimbalzante
esca una luce ingannevole.
Posseduta dai cieli
dorme nell’angolo e ancora cammina
sulla polvere, e ancora
farnetica la sua volontà
sul confine del manicomio reso esile
dalle mie lacrime che marciano.
E preso dalla luce tra le sue braccia, alla lunga
e cara fine, io posso
senza cadere
patire la prima visione che incendiò le stelle.
Il discorso della preghiera
Il discorso delle preghiere prima che vengano
dette andando a letto dal bimbo; dall’uomo
sulle scale, salendo nell’alta
stanza dell’amata che muore; noncurante, l’uno
di chi scorgerà nel sonno; l’altro
pieno di lacrime perché lei sarà morta,
gira al buio nel suono che sanno
crescerà nei cieli che rispondono dal suolo
verde, dall’uomo
sulle scale e il bambino nel letto.
Il suono a breve ripetuto nelle due preghiere
per il sonno su una terra sicura e l’amata che muore,
sarà lo stesso volo di cordoglio. Chi calmeranno?
Dormirà salvo il bambino, o l’uomo sarà tra i singhiozzi?
Il discorso delle preghiere prima che vengano
dette ruota tra vivi e morti, e l’uomo
sulle scale a notte non troverà
morente, ma viva e calda
nel fuoco della sua custodia l’amata
nell’alta stanza. E il bambino non avrà cura di chi
troverà la preghiera; crollerà in una pena tanto
profonda quanto la sua vera tomba. E segnerà
con quelli del sonno gli occhi scuri dell’onda
che lo trascina, sulle scale, da una che giace.
Morti e ingressi
Nell’incombente vigilia incendiaria
di diverse prossime morti,
quando uno degli ultimi tra i vostri
più amati e conosciuti da sempre dovrà abbandonare
i leoni e le fiamme del suo fiato
a precipizio; dei vostri amici immortali
colui che inciterebbe della polvere
contata gli organi a colpire e cantare le vostre
lodi; uno chiamato nel baratro terrà la sua pace,
uno che non può ridurre né chiudere
in eterno la propria ferita
nel dolore straniante di molti sposi di Londra.
Nell’incombente vigilia incendiaria
quando alle tue labbra e chiavi
serrando, disserrando, la trama straniera
assassinata, il più sconosciuto,
la tua vicina stella polare, sole
di un’altra strada, si gettava tra le sue lacrime.
Laverà il suo sangue scrosciante nel maschio
mare chi camminò per i tuoi morti e avvolse
il suo globo fuori dal tuo filo d’acqua, caricando
la gola delle conchiglie con ogni pianto da quando
la luce folgorò per prima i suoi occhi tuonanti.
Nell’incombente vigilia incendiaria
di morti e ingressi,
quando una prossima e strana ferita sulle onde
di Londra ha cercato la tua unica tomba,
un nemico tra i tanti che conosce
bene il tuo cuore luminoso
nel buio vegliato, fremendo tra grotte
e serrature strapperà i tuoni
per colpire il sole, scagliandoli mentre monta
le tue chiavi oscure bruciando solamente
i cavalieri, finché su colui che hai meno amato
incomberà l’ultimo Sansone del tuo zodiaco.