Site icon Inverso – Giornale di poesia

Prisco De Vivo | Del lirismo antropologico

a cura di Ilaria Palomba
intervista a opera di Stefano Taccone


S. T. Da decenni concili il tuo percorso pittorico con quello poetico. È vero che uno dei padri della nostra tradizione culturale disse “Ut pictura poesis” e che nel corso della storia si trovano esempi eccellentissimi di questo connubio – su tutti non posso che pensare a Michelangelo Buonarroti, – ma è anche vero che questa figura del poeta-artista visivo e forse ancor meno del poeta-pittore non è frequentissima. Come vivi dunque questo tuo doppio canale di espressione? È sorta in te prima la vocazione per la pittura, prima la vocazione per la poesia, oppure l’una e l’altra contemporaneamente? Pensi permanga, almeno parzialmente, un pregiudizio logocentrico che vuole l’incompatibilità tra le due figure?

P. D. Sai credo che la massima libertà per l’artista sia il suo “sogno” come lo è stato per Alberto Savinio in tutto quello che ha fatto; in veste di pittore, poeta, drammaturgo, saggista e compositore. Ebbene, io mi sento molto vicino a quel suo “sogno” che lo ha portato a coniugare tutte queste pratiche insieme facendone uscire alla fine un solo registro. Ma, penso, anche, ad August Strindberg, altro scrittore e pittore che relegava tutta la bellezza del talento al “sogno” tanto da dire: “sogno, quindi esisto”. Ebbene, questo è il semplice ma reale manifesto sulla figura del poeta – pittore. Ma, è, anche, abbastanza evidente che i due specifici (pittura – poesia) nel sistema dell’arte contemporanea non vengono messi a confronto ed è vero che non sia affatto “frequentissima” la figura del poeta – pittore (che rimane in disparte). Il mio poetare è stato sempre parallelo al mio dipingere senza mai alcuna flessione come poteva fare con semplicità Jiří Kolář. Il Novecento italiano ha dato i natali ad artisti/scrittori come: Filippo De Pisis, Alfonso Gatto, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, ma, anche, ad artisti stranieri più provocatori ed estremi come: Gunter Brus oppure Martin Disler. La loro è una testimonianza davvero indelebile delle arti visive e poetiche, e, proprio per questo non ho mai pensato ad una incompatibilità di fondo tra le due pratiche.

S. T. Credo che in te pittura e poesia si incontrino all’insegna del lirismo antropologico, dell’interesse per l’uomo e per tutti i suoi cruciali passaggi. Non che non esista una sensibilità per la natura, ma essa è appunto sentita sempre in una dimensione di relazione con l’uomo. E la stessa cosa direi circa il concetto di Dio. Mi pare, in altri termini, assente dal tuo lavoro ogni tentativo di desogettivizzazione. Ti riconosci in questa descrizione o pensi vi sia qualcosa di cruciale che non ho colto?

P. D. È vero, sei uno dei pochi a parlarne, mi identifico molto con questa tua definizione di “lirismo antropologico”. Il mio interesse all’uomo ed alla sua storia è stato sempre dettato dalla mia vicinanza verso la sua tragedia e verso la sua redenzione a quel passaggio storico che ha portato l’uomo moderno al post-moderno ed alla “dromologia” ben teorizzata da Paul Virilio. Certo, a livello odierno, mi identificherei poco nell’era del transito essendo un romantico di fondo. Per avvicinarsi alla mia opera occorre comprendere la mia vocazione cristiana ed il mio infondere verso lo spirito. Il mio occhio rimane fisso sulla croce e cerco di tradurre con i poveri mezzi che ho a disposizione “un’arte della luce”.

S. T. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia è sempre più pervasiva e ciò – quasi continuando il filo della fortunata espressione coniata da Umberto Eco ormai oltre mezzo secolo fa, apocalittici e integrati – sembra, semplificando, condurre a due approcci contrapposti. Da una parte vi sono coloro che esaltano i successi della scienza, considerandoli la prova che l’umanità viaggia verso condizioni di vita sempre migliori; dall’altra vi sono coloro che mettono in guardia contro le catastrofi che la tracotanza umana nei confronti della natura renderebbe imminenti. Nella stessa vicenda della pandemia, in cui ancora siamo mentre scrivo, trovano supporti per le loro convinzioni sia gli uni che gli altri. Come ti poni in questo dibattito nel tuo specifico operare artistico? Credi che sia necessario per essere un artista del proprio tempo confrontarsi, a più livelli, con le nuove tecnologie? O, viceversa, preferisci fornire di te un’immagine anacronistica, inattuale, nel senso alto di questi termini?

P. D. Credo che tutti noi, oggi, ci siamo trovati in un importante cambio epocale. Siamo passati da un’era post-tecnologica ad un’era digitale, e a tutti gli anni che si susseguiranno (siamo nel tempo del “pandemico”). Penso che ogni sforzo che fuoriesce dalla nostra vita non possa altro che essere associato alla pandemia; a queste infezioni che possono assalirci. Credo che molto cambierà e si trasformerà anche nei confronti dell’arte, della poesia e della cultura in generale. L’uomo contemporaneo è eticamente lontano dalla salvaguardia del suo pianeta; ne ha dato atto proprio in questi ultimi decenni. Quest’equilibrio fra scienza e rispetto della natura ancora non è maturato. Intanto, l’artista del “proprio tempo”, come tu lo definisci, non può fare altro che confrontarsi con le nuove tecnologie che, talvolta, possono diventare da supporto. Penso che nella storia questo sia già avvenuto, se pensiamo a Durer o ancor più a Leonardo Da Vinci e a come hanno utilizzato a loro piacimento tutte le possibilità scientifiche che avanzavano in un’epoca davvero ostile ai radicali cambiamenti. In quanto a quell’inattualità di cui parli, l’artista, anche se è assorbito dal tempo in cui vive e si assoggetta ad esso, è sempre anacronistico, perché l’arte non è mai del proprio tempo, ma è una proiezione indeterminata. Per quanto riguarda il carattere dell’artista è sicuramente quello di porsi davanti al proprio lavoro con una lucida negazione; bisognerebbe agire quasi con spietatezza al proprio codice visivo lontano dall’incantamento del talento.


Il copertino giallo

Nella buia stazione: fiori di stracci.
Un copertino giallo
copre una donna ulcerata
un piccolo corpo
di cisti e verruche.
Le mie ossa s’incollano alla ringhiera.

Il sorriso di santa Teresa d’Avila

Su una panchina bagnata
appariva il tuo doppio,
la nipotina della tua stessa faccia.
Del tuo stesso sorriso, era con te.
Riconoscevo Santa Teresa D’Avila
nel taglio delle sue labbra.
E tu ridevi, ridevi.
Avvicinandoti
volesti baciare la mia mano
che sanguinava.
Con quel gesto venerabile
mi salutasti,
lasciando che l’acqua ti scorresse
tra i capelli.

Negli inverni del ’50

a zio Luigi

Il cerimoniere è a tavola.
Il tintinnio scintillante dei bicchieri
assolve penetranti occhiate.
Sul collo lungo di una bottiglia di vino
il riflesso informe di mio padre
che ripete: “frateme nùn teneva e’ scarp”.
Penso alle sue scarpe nere
legate con lo spago alle mie mani.
Negli inverni del ’50
siete apparsi tutti e due.
Col cappellino grigio
sguazzavate nel fango delle pietre,
posavate su cerchi di sedie
senza sedili.

Exit mobile version