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Guido Mattia Gallerani | I popoli scomparsi

a cura di Giovanna Frene
da I popoli scomparsi (PeQuod 2020)


Uomo di Neanderthal

Si credeva la creatura più speciale,
ma era solo il più giovane
tra gli abitanti effimeri del mondo.
Nelle steppe spiluccava le bacche,
collezionava gemme colorate
accompagnato dal mugugno delle scimmie.
Ben prima della nascita dei miti,
fuggiva dietro le sue frecce
l’orso bruno, il Grizzly.

Velocemente la terra si raffredda,
le risorse decrescono e induriscono
di promesse. Uscito indenne
da un’altra glaciazione uno più intelligente
avvolto dalla corteccia cerebrale
avanza al riparo, acclimatato alle foreste.

Smise di mettere su bivacchi
al di là del vallo alpestre
e di comunicare cogli antichi gesti.
I fratelli lo abbandonavano,
lo guardavano con la famiglia scemare
anno dopo anno, separandosi solitario
dalla protezione del fuoco.

Da cacciatore a vittima,
dietro le teche di un museo
raffermo nella sua requie
di cera e tende di cartone
solleva compassione
nei visitatori. Nessuna parola
dalle sue vittorie, né leggenda
per un’anima preumana e impaurita,
con la sua cena ancora lì
lontana un passo nel diorama,
imbalsamata nella formalina.


I cimmèri


Dei cimmèri giungono notizie contrastanti da Erodoto ed altri che ne hanno preservato la memoria: popolazione originaria del Caucaso, diede i natali all’attuale Crimea. Nel libro undicesimo dell’Odissea, Ulisse si rende alle loro gelide rive per compiere la sua nekyia, l’evocazione di quei morti che dall’Erebo infernale gli si parano innanzi come ombre, mentre Italo Calvino, nelle creazioni fantastiche di Se una notte d’inverno un viaggiato- re, ne fa gli scrittori di una letteratura nazionale, “repressa” e “morta”.


Non era quell’infelice popolo
che non sa dov’è il suo luogo
e lo secreta ai viaggiatori
sulle orme di Ulisse avvolgendosi di nekyia nebbiosa.

Incalzati dalle picche degli sciti –
la plebe pronta a farsi assimilare –
i nobili volevano togliersi la vita,
invece coprirono di trappole
l’abisso cimmerio, sbocco
della nube mortale di zolfo
e s’incamminarono lontano dal mar d’Azov.

Dalla Crimea vennero alle pendici
vesuviane e servizievoli maggiordomi
della sibilla Cumana,
godendo dei tagli prelibati e delle offerte,
vissero del turismo propiziatorio,
delle eredità versate ai cari
defunti. Spesso suonavano
le campanelle notturne,
fruscianti alle porte delle grotte.
Il sibilo dai salici saliva fino ai letti
e torturava nel sonno quelli
fattisi ormai servi, dimentichi
dei pronunciamenti
con cui le ombre sostanti
rindietreggiavano
fino alle soglie dell’Averno.


Maya


Affondate nella selva amazzonica
le vette si sgretolavano
cedendo alla solitudine
e all’assenza di una cura
preannunciando l’apocalisse
della civiltà precolombiana.

Protetti dalla loro bolla d’aria
non s’accorgevano d’archiviare
occasioni perse lungo i secoli.
Soli stavano tranquilli e impauriti,
felicemente avidi della torre
che saliva fino in cima.

Sovrappopolate in una cinta troppo stretta,
terre incolte e disboscamento
sterminarono le fatidiche piramidi
alle pendici del villaggio.
Non lasciarono uscire nessun messaggio
di pericolo, di aiuto proiettato all’esterno.

Gli archeologi, nelle ultime ricerche
portano alla scoperta polle d’acqua
che rivelano come intere zolle
scivolarono nell’avvallamento
a sfondare i bacini idrici.
Poi vennero le radici marce
e le aree fradice, semi spugnosi e morti
che ritornano nei simboli
premonitori sugli altari
orientati secondo gli astri.

Prima che fosse raggiunto
dai cavalieri erranti sul mare,
l’esiguo spazio donato in prestito
l’indigeno lo abbracciò con tutto
il suo spirito. Esaurendo
nella loro natura ansiosa
molti bisonti, un’ultima volta
bisbigliarono le loro formule
gli sciamani. Poi in silenzio
guardarono quegli alberi
allinearsi all’orizzonte:
piccole croci rosse
avvicinarsi in avanzamento
dal mare esterno e tempestoso.


L’orologio dell’Apocalisse


Nato come logo del Bulletin of the Atomic Scientist dopo il successo del Progetto Manhattan e l’invenzione della bomba ato- mica, l’orologio dell’Apocalisse misura il tempo restante all’umanità prima della propria autodistruzione, dal 1947.


S’era appena addottorato
quel manipolo di scienziati
quando accerchiarono
la testata d’uranio.

Le sentinelle ascoltarono per prime
il rimbombo nel deserto messicano.

Quando tutto andò a buon fine
si ritirarono nei luoghi
precetti e quotidiani,
nelle dimore ereditate
dalle élite sotto le arcate
medioevali e vissero lunghi anni
alternando a Oxford o Yale
vittorie con ripensamenti,
insegnando ad altri
l’universo dei quanti
e dai campus
i nuovi arsenali.

La loro figura non uscì più
dagli scranni universitari.
Oggi appare incredibile
che quel drappello d’accademici
abbia spostato bandierine rosse
sulle carte militari
all’apice del pericolo e nel tentato scempio
del nostro pachidermico passaggio.
Loro formula alchemica,
destra algebrica di Dio.

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