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Matilda Randighieri | Poesie per pettirossi e altre creature minute

a cura di Mattia Tarantino
da Poesie per pettirossi e altre creature minute (Incontri, 2021)


«Qui chi trema può sostare»
Breve mappa per il giardino dei cherubini ammaccati.

«Per me esiste un profondo legame tra l’urina e il salnitro e, non so perché, tra il fulmine e un antico pitale d’argilla abbandonato in un giorno di pioggia autunnale sulla tettoia di zinco di un lavatoio di provincia»[1]. Con queste righe, Bataille rivelava struttura e fremito della parola, della parola che si fa poetica. Statuto ambiguo, statuto incerto, statuto che pare revocare la sostanza dai possibili, occupare la soglia – altrettanto ambigua, altrettanto incerta – che abitiamo. La soglia tra l’al-di-qua e l’al-di-là del mondo e delle cose, l’insidia[2] che ci preme nella voce e trema, scalcia, custodisce. Come dalla soglia sia l’asse è il mistero che ci attraversa e che la parola, la parola dei poeti, conserva e testimonia. Asse slittato, sottratto allo scheletro dialettico, campo sempre nuovo che si sacrifica – svanendo, e svanendo affermandosi – perché qualcosa possa essere. Possa essere ancora e nonostante[3], come aveva visto Kandinskij guardando – affaticandosi, più propriamente, a guardare senza fissare alcunché – tra le linee: «L’elemento drammatico porta in sé, oltre al suono dello spostamento (nei casi menzionati, la linea acentrale), anche il suono dello scontro, per il quale sono necessarie almeno due forze»[4]. Le poesie per pettirossi e altre creature minute della Randighieri, percorse dai due suoni – dello scontro, dello spostamento –  li attestano, tramandano: «Queste parole che non ho mai chiamato/ dicono la verità», dicono Ein jeder Engel ist schrecklich, ma come serrando «in gola il richiamo/ dell’oscuro singulto»: Denn das Schöne ist nichts/ als des Schrecklichen Anfang.[5] Quello che si apre tra Schöne e Schrecklich è la possibilità di una traccia, di un terreno che segni («A me la voragine/ una buca/ terra inquieta che sprofonda») cadendo, cedendo. È proprio dal cedimento, infatti, che hanno inizio la storia e le parole, dal suo rovescio, dall’appello impassibile: «Non ti stupire se non sono cedevole». Logorio dell’Herkunft, se seguire «la trafila complessa della provenienza, è […] mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è propria: è ritrovare gli accidenti, le minime deviazioni – o al contrario i rovesciamenti completi – gli errori, gli apprezzamenti sbagliati, i cattivi calcoli che hanno generato ciò che esiste e vale per noi»[6], qualcos’altro, al contempo, emergerà pulsando: «Tu non sei un destino,/ Io ti ho scelto, posso dire no/ ma non potrei mai abbandonare la Parola». Quel che resta,  intatto come le cose del tutto rovinate[7],  avvenimento come sacrificio («Sacrificio […] determina una dimensione di separazione, una dimensione altra: la dimensione dell’eterogeneo, che si sottrae alla dimensione del mondo ordinario, il mondo del calcolo e dell’equivalenza (dell’omogeneo) – quella del soggetto che ordina il mondo avendo di mira esclusivamente la propria conservazione, il proprio utile»[8]) è la parola, alchimia del tempo, fondo e sfondo del mondo, cosa – creatura – breve[9] allacciata al sangue, al nome, al volto. Quel che resta, quel che dimora nel fondo già-sempre infondato delle cose – traccia materica della fine che non finisce di finire, sostanza e non-luogo, Nir-Garten della metafora – non è che un cerchio, o la sua quadratura, il suo corpo quadro che «fa presa sulla superficie di fondo e vi si stabilisce per sempre. Così esso è internamente la più concisa affermazione stabile, che sorge breve, ferma e rapida»[10]. Se questo è il luogo, e la ferita non sorge che in luogo del libro, sarà un distico, allora, l’augurio e l’amuleto: «Il mio è il giardino dei cherubini ammaccati./ Qui chi trema può sostare».

Mattia Tarantino
Aversa, agosto ’21

[1] Georges Bataille, Un filo di sangue, in Storia dell’occhio, Milano, ES 2005, p. 37.
[2] Cfr. Yves Bonnefoy, Nell’insidia della soglia, in L’opera poetica, Milano, Mondadori 2010, pp. 298 – 423.
[3] Cfr. Anna Giulia Panini, Postfazione, in Tra l’angelo e la sillaba, Lecce, Terra d’ulivi 2017, pp. 61 – 64.
[4] Wassily Kandinsky, Linea, in Punto linea superficie, Milano, Adelphi 1968, p. 70.
[5] Per i corsivi Ein jeder […], Denn das […] e il virgolettato «in gola […] singulto» cfr. Rainer Maria Rilke, La prima elegia, in Elegie Duinesi, da Poesie 1907 – 1926, Torino, Einaudi 2000, p. 279.
[6] Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Torino, Einaudi 1977, p. 35.
[7] Cfr. Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, Il Saggiatore 2021.
[8] Marco Rovelli, Il segno sacrificale, in Sacrifici. Con 4 acqueforti di André Masson, Viterbo, Stampa Alternativa 2007, p. 39.
[9] Cfr. Gabriele Galloni, Creatura breve, Roma, Ensemble 2018.
[10] Wassily Kandinsky, Punto, in Punto linea superficie, Milano, Adelphi 1968, p. 28.


Quindi bisogna abbandonare la parola.
Che debba spezzarsi il verbo
per tornare completo?
Attenderò l’apocalisse
il ribaltarsi della semantica;
verrà persa ogni lettera
affinché sia vinto il senso.
Di notte temo l’afasia
altre volte credo che imparare
a dire senza più nominare sia
la salvezza ultima.

*

Nel mio giardino non lascio entrare
dita puntate, né presunzioni o verità
strette nel pugno come giacinti
fra le braccia delle donne eliotiane.
Nel torrente galleggia pallida Ofelia
e ogni giorno, nella casetta di legno
Chatterton muore sul suo giaciglio.
Gli uomini si amano senza fini superiori
non c’é evoluzione da perseguire,
non è già forse un fine ragguardevole
glorificare la vita nell’amore?
Nel mio giardino si guarda al cielo
con mani sprofondate nel fango
e di entrambe le azioni la dignità è uguale.
Il mio è il giardino dei cherubini ammaccati.
Qui chi trema può sostare.

*

Invocavi lo strappo del cielo
di carta.
Fosse anche stato assordante
almeno avresti vinto il velo.
Il tuo sguardo chiedeva a gran voce
un fine o una causa.
La tensione reca il tuo nome:
è tua la ricerca disperata,
puntare il dito,
tua la consapevolezza
e nel buio il ricordo più vivo
che ho di te è un cosmico
tremare.

*

Conto spesso le mie colpe
un rituale che comincia
con l’attesa della punizione.
Ma c’è qualcosa che non torna
una morale da estirpare.
Senza legge
non vi è trasgressione.
È per fede allora che
preparo il mio peccato
affinché vi sia nido
per tutta la progenie.

Andrea e Arno, giugno ’21

Quanta grazia
nel portare il peso
del fardello altrui
senza trasfigurarlo
con interpretazioni maldestre.
Questa apertura – all’ – altro dei corpi
fa sì che siano uno
quando il verbo fallisce. Giunse l’afasia
ed ecco che saltarono il fosso
atterrando salvi oltre la Parola.

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