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Davide Cortese | Zebù bambino

di Gino Scartaghiande
da Zebù bambino (Terra d’ulivi, 2021)


Alla corte di Davide

(Zebù bambino di Davide Cortese, titoli allitterativi per una probabile ricognizione dell’infanzia)

Di intonazione delicata, come quelle carte cinesi degli aquiloni, ma con le nervature ontologiche di un aquilone pascoliano. Quel sicuro pencolare dei due volti, il bimbo morto, e biondo, e il rimemorante poeta, il suo volto, su di un ventoso prato di Urbino. Gli Scolopi, certo, i dogma cristiani, quando il due diventa tre, e la verità non è più discorsiva, ma si dogmatizza, appunto,  ed è più lieve, sussumendo il tragico nel bimbo innato; fanciullino omerico che fa e disfa i suoi castelli di sabbia, o l’imprendibile, per semplicità, e profondità, fanciullino pascoliano, del primo ancora emulo, in quanto volteggio d’inter-facies romboide, di figura certo, ma anche di suono, che Pascoli ha intonato tranquillo nel secolo positivista, e sopraffacente il sibilo del proiettile che gli aveva ucciso l’infanzia. Ecco allora che una carrozza nel tempo, con tanto incedere di cavalli e aerei costumi settecenteschi, ci trasporta, con questo Zebù afro-palestinese, in una sorta di locanda alla Silvio D’Arzo, ovvero All’insegna del buon corsiero, e tra corsiero e cortesie settecentesche corre buon sangue, lo sappiamo. Tanto che un capovolgimento da anello di Moebius, che non solo indica una permanenza dell’id pur nel cambio di posta del campo magnetico, positivo-negativo e viceversa, ma addirittura il ritrovo di un altro da sé, non euclideo, e non più di spazio e tempo, dimensioni oramai riconosciute relative dalla fisica moderna – questo capovolgimento dicevo del tempo-spazio di Silvio D’Arzo, in una soavissima aurea di divertissement settecentesco, non è affatto un anacronismo, ma l’apertura – poeticissima – dello stesso fenomeno identitario dell’autore entro di un vario tempo umano. “L’anello di Moebius”, tra l’altro, è il titolo scelto da Antonio Bux per una collana di poesia da lui diretta in cui è apparso In che luce cadranno di Gabriele Galloni, libro-evento capitale della nostra più recente poesia. Come se già nei titoli noi vivessimo di una certa sapienza, come di una borsa svuotata di tutto, per accogliere la doppia notte dello Spirito. Così, nello spirito di un’allitterazione, posso pensare al titolo di uno dei tanti finissimi capolavori di Ozu, Una gallina nel vento, che manifesta la tragedia familiare di una madre che si prostituisce per pagare le cure mediche del proprio bambino, con catarsi finale quando dopo una tormentosa lotta interiore il marito riesce a perdonare alla donna.Gallina di Ozu, non lontana parente della “gallina, / Tornata in su la via, / Che ripete il suo verso” de La quiete dopo la tempesta e della gallinella de La vita solitaria di Leopardi; “La mattutina pioggia, allor che l’ale / Battendo esulta nella chiusa stanza / La gallinella”. Questi titoli tra fisica e animalia, che possono anche ricordarci il volatile pollo che sempre dobbiamo ad Esculapio, per guarire. In questa locanda All’insegna del buon corsiero colloca la sua capanna di nascimento Davide Cortese per il suo Zebù bambino. Gli altissimi strumenti retorici per mettere in atto questa installazione – di nome e di fatto – non sono da dire, tanti sono e così sapientemente adoperati dall’autore. E l’operazione riesce, e si regge con infinita grazia e plausibilità proprio come in una pagina per bambini di Silvio D’Arzo. Ma dapprima, è l’ispirazione stessa a farla da padrona; è lei che rifa e appronta tutta la strumentazione, quella per cui il nostro Giacomo lamentandone lo stato diceva: “hassi a rifar”; “Quando fanciullo io venni / A pormi con le Muse in disciplina / L’una di quelle mi pigliò per mano; / E poi tutto quel giorno / La mi condusse intorno / A veder l’officina”. Entrando oggi in una grande officina poetica, una sorta di Cristo-Resort di alto capannone abbandonato nella periferia romana, vediamo che giochi di luce si ricompongono, sullo sterrato polveroso e vuoto, e della diligenza settecentesca di Silvio D’Arzo non è rimasto nulla, se non quel desiderio di Casa d’altri di morire prima, come Zelinda, la vecchia montanara del racconto, chiede al reverendo del paese; se “qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima”. Si ricompongono le due facce del sogno romboide di Pascoli, l’infanzia anonima di Silvio D’Arzo, e il suo desiderio di morire prima. Il tutto in una severa e contemplativa aria da servetta di monte pascoliana appunto, tra silenzi, ombre, sonare di campanacci in lontananza. Ma guardando meglio, quei concentrici cerchi di polvere, sono pur sempre come di un giro d’acqua e di pioggia, e un sasso, o un verso che vi si ponga, ne risuona tutto l’insieme. Come di una filastrocca nel vuoto d’aria che poggiasse ancora sulle pietre sicure di un endecasillabo. Un buco nell’acqua, ovvero nell’aria, non è sempre una tale disfatta, quando poi il poeta, per sostentarsi, va a caccia d’inverno, rompendo i ghiacci. Ed è sapienza sciamanica dei popoli artici, gli Inuit e gli Yupik. Perché qualcosa è stato limato, nei tempi nostri più recenti, un po’ di consiglio è sorto, dopo i novecentismi ermetici e pitagorici. Beppe Salvia, nella sua Estate fatta di una mattinata di bimbi zingari a Ponte Milvio, usa l’endecasillabo, ovvero “del metro”, come d’un “pettine” per pettinare / spettinare la sua bimba dai “capelli neri” che “è così bella è così bella”. Sugli addii dei profumi della giovinezza, si dissolve e si ricompone in un endecasillabo il tiaso amicale di Gabriella Sica, in Vicolo del Bologna. Questa strumentazione Davide Cortese la riprende in pieno, con quella stessa duttile maestria con cui se ne è servito Gabriele Galloni, dando corpo alla persona, ritrovando una vera fonte ispiratrice di essa poesia, e del suo indissolubile connubio di amore e morte. Il tutto dissimulato in un’aria quasi da filastrocca ripeto, da variazione scherzosa sul tema, ma pur sempre nel sopraddetto binomio, dove accanto alla giocondità dell’infanzia, possono apparire angeli più oscuri, e perfino demoni. Già il nome stesso, oscillante tra Gesù e Belzebù, sta ad indicare il difficile stato di combattimento spirituale del bimbo Zebù; la sua ineludibile chiamata da parte di un kairos musivo, che proprio come il dio extra-olimpico Apollo, è al contempo saettatore di nemici e pacificatore di fiere. E quindi, in tanta leggerezza da Silvio D’Arzo, ovvero stato di gravità del combattimento spirituale, a nascondere i temi più profondi dietro bronzee filigrane di colonne tortili, anche angeli neri salgono e scendono lungo questi endecasillabi, come nuvole su di un baldacchino del Bernini. E il doveroso, baroco esotismo del bimbo, come il raggiungere l’Africa o il più lontano oriente – questo esotismo del bimbo dicevo, rivela anche, nella favola d’immagine della propria infanzia, un cuore più convinto di un’altra, e più chiara oscurità degli angioli. Anche Giovanni Bellini ha dipinto angioli neri dietro il San Vincenzo Ferrer, nel polittico che si trova nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia. Il santo, un domenicano, ha una mantella nera sull’abito bianco, a sua volta incorniciata da un gloria di angioli neri che l’avvolge dalla testa ai piedi. Nel registro superiore della pala, suddiviso in tre riquadri, è raffigurata una deposizione interposta tra l’Angelo e la Vergine di una annunciazione. Nero e bianco marmoreo è lo sfondo dietro l’angelo dall’attonito stupore reggente un giglio anch’esso marmorizzato, come uscisse dalla pietra; verde scurissimo tendente al nero il mantello di Maria. È una annunciazione luttuosa. Zebù bambino, liparota, come la montanara Zelinda dell’Emilia… la sua anche, probabilmente, è la sacrificale offerta dell’infanzia, quale un gioco nella fonte di quel piccolo thòlos miceneo di Lipari, dove i millenni lavici hanno conservato per noi una miniatura delle antichissime e regali sepolture micenee; dove Carlo Rosselli salvò, nascondendolo nel pianoforte, il dattiloscritto di Socialismo liberale; dove venne concepita Amelia Rosselli, che teneva moltissimo a queste sue origini siciliane. La grazia e l’affabilità d’inconfessato piccolo principe di questo Zebù bambino, ne fa un dono di poesia di tanta delicatezza ripeto, da ricordarmi il fiato sospeso delle più contemplative sequenze di Ozu, lì dove la tragedia sa mutarsi in commedia, e rende utile, anzi necessarissimo, ogni sospensione di tempo e spazio. Sia Troisi che Pasolini, se ne ricorderanno, di questo vuoto di Ozu. Si pensi, in Viaggio a Tokio, alla lunga inquadratura del bianco vaso di porcellana, intromessa tra padre e figlia, come momento di sublime silenzio nel comunicarsi l’affetto reciproco. Se ne ricorderanno dicevo, Pasolini ne Il Vangelo secondo Matteo – la lunga sequenza scura coi versetti di Matteo 13, 13 “Per questo parlo loro in parabole, perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” – e Troisi quando si cimenta a muovere il vaso bianco di porcellana con la sola sua forza di concentrazione, in Incomincio da tre. Ecco che uno spolverio di bimbi chiassosi – monellacci – esce dagli ostelli tra una nuvolaglia in cielo di piume d’oche; siamo allo Zebù-Zéro de conduite di Jean Vigo, quel giovane-colui-bambino – kenos, emmen, ottis, dice Saffo nella sua sponsale Ode del sublime – ovvero Jean Vigo che del morire prima ci ha lasciato anche i suoi funerali scritti, a mo’ di nozze, nel suo buco nell’acqua, L’Atalante, dove ci si tuffa, per vedere lei. Che Zebu-zéro, sia anche quel vuoto, quella condotta nel vento etimologico zèphirum – arabo sifr,a sua volta dal sanscrito sunya col significato sia di vuoto che di zero – o anche un più alto vento come quello iperboreo da cui ci è venuto Apollo, fa di questo piccolo Zebù, nel vuoto vulcanico da cui sorge l’isola di Lipari, un capovolto refolo di vento, propagatosi fino a noi da quella sapienza greca che ebbe inizio, come li indica Alceo, tra “coloro che vivono al di là del vento del Nord”.

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