di Beatrice Orsini
da Prosimetro moderno (Eretica, 2020)
Capita di rado che un libro di poesia offra una precisa architettura compositiva entro la quale stabilire un percorso. Abituati a leggere ogni singola poesia come un testo a sé, Alessandro Ardigò, con il suo libro d’esordio “Prosimetro moderno”, opera una scelta diversa, consegnando al lettore un indizio iniziale che costituirà un filo da seguire, pretestuoso se si vuole, artificioso anche (nel senso in cui l’arte stessa è artificio e non per questo meno veritiera della realtà,) invitandolo ad accettare la finzione secondo la quale il libro in questione sarebbe opera non dell’autore, ma frutto di un ritrovamento casuale, quanto necessario. Un libro strutturato in modo tale da alternare alle riflessioni che Ardigò consegna K. (il cui nome inevitabilmente getta un ponte verso Kafka e le sue metamorfosi) poesie che il presunto personaggio si sarebbe preso la briga di tradurre e poi trascrivere. Con un continuo cambio di scenario, l’autore combina prosa e poesia, commutando il linguaggio poetico in linguaggio conviviale, quotidiano, e infondendo nella prosa un alone di liricità. Quanto più il linguaggio si avvicina alla dimensione della quotidianità, nella sua esattezza lessicale e precisione semantica, lontano dalle sirene della metafora e dell’analogia, tanto più, paradossalmente, esso diviene altamente poetico. Poetico non “nonostante” la sua dimensione realistica. Poetico in virtù del suo essere realistico. “Non vi è nulla di più astratto del reale”, amava dire Morandi per parlare dell’alchimia dei suoi dipinti e il mondo che l’autore ricrea, la pianura post-industriale, moderna e inaccessibile, assurge a varco verso un altrove. Tutto, infatti, vi appare irrisolto e sospeso, come le stagioni che si rincorrono, le quali più che indicare lo scorrere del tempo, in realtà non conducono in nessun dove, se non alla sospensione del tempo stesso. Prendendo spunto da ciò che accade esternamente, K. incalza le conseguenze del discorso in un dialogo delicato e al contempo serrato tra sé e sé. A riprova che l’esterno non esiste, se non come estensione ed estroflessione del punto a cui ciascuno di noi è riuscito a spingere – più a fondo e più in là – la propria interiorità. La logica è impietosa e non lascia scampo: una volta che si imbocca la sua strada, si è costretti a percorrerla fino in fondo. Fino alla spoliazione della realtà, costrutto condiviso e idealmente riparatore, oltre al quale, però, si erge il deserto del reale. La lucidità dello sguardo che K. getta all’ambiente esterno non produce, infatti, una compenetrazione uomo/natura, ma un sentimento diffuso di estraneazione, in bilico su interrogativi per i quali non esiste una risposta (“Ma la formica è un insetto”, si interrompe a un tratto K. “Se io osservo un mare di formiche, in quale delle loro azioni posso definirle libere?” K. è turbato, scoraggiato: è una logica che non lascia pietà. “Nell’amore?”. “Che retorico che sei”.)
da I tempi persi
Circhi. Campi. Nessun passeggero.
Furgoni degli anni Settanta.
Circhi. Ruote di giostre che girano.
Campi. Ruote.
Echi di gridi,
lazzi di ragazzi.
Girano come il Tempo,
che è un mulinello,
ma sempre è fermo e non si sposta.
Nei Settanta io non c’ero.
Degli Ottanta ricordo la parola
che per prima scrissi per intero.
Dei Novanta un bacio, o più che il bacio le tette,
e “Onyx” le magliette.
Son passati gli Zero e gli anni Dieci,
dei Venti scriverò fra venti anni altri,
ma sarà come fossero l’altrieri.
Non vi è alcuna storia, alcuna narrazione.
Un momento presente la cui durata è in sospensione.
Gocce di vapore in tondo nell’Universo.
Un cerchio non è tempo, è solo sospensione.
da I canti dell’Hikikomori
Attese, nelle società post-industriali
Forse attendi il vento
Che almeno senti
Perché i capanni si allungano
Senza misura, e non li percepisci più
Forse attendi chi? Una persona?
Mentre cammini sulla striscia bianca della strada
Ti accorgi che era l’immaginazione
Che soffiava assieme al vento.
da I giochi sull’acqua
Fosse vero
che solo nella disciplina
è possibile trovare un briciolo di libertà,
quella libertà
tanto promessa a tutti
dal feticcio della nostra società,
allora sarebbe bello,
visto la miserrima, stupida, vana vita
toccata in sorte,
con un carattere e dei difetti incorreggibili,
sarebbe bello
dimenticare tutto il resto
e dedicare con abnegazione se stessi
alle due o tre cose che – sole –
sgorgano da dentro,
lasciando alla deriva
il resto di se stessi.
da I tempi persi
A un livello di complessità
negli anni
arriva il cuore
– tale che –
– a volte –
ha bisogno di essere sciacquato davanti al mare.
da Le avventure di K., inverno, IV
K. vorrebbe sapere quanto è invecchiato, quante occasioni gli restano, quante ne ha sprecato. Oggi che si sente così stanco e inquieto allo stesso momento, vuol sapere che strada prendere e da che strade viene. K. non sa niente, o almeno così si sente.
Fuori i rumori delle macchine, della pianura che si perde nel niente, nel vuoto senza avventura: è la città diffusa.
La modernità liquida non è liquida di onde dell’oceano: tutta adesa sul presente, l’anima dell’oggi è piatta, è una lastra d’olio allargata, è già calcolata. La complessità non ha direzione, soprattutto in verticale. Il carattere, suddiviso in milioni di piccole cifre, è predittibile. La complessa società dell’uomo, una volta imparato a gestire miliardi di dati, non è dissimile dalla complessa società della formica. La si osserva a un documentario di animali estinti.
“Ma la formica è un insetto”, si interrompe a un tratto K. “Se io osservo un mare di formiche, in quale delle loro azioni posso definirle libere?”. K. è turbato, scoraggiato: è una logica che non lascia pietà.
“Nell’amore?”.
“Che retorico sei”.
da Le avventure di K., inizio dell’estate, epilogo
Da sempre, già da bambino, K. immagina se stesso come un fiume. L’acqua brillante sotto i raggi del sole, una trota che scoda, i riflessi lucenti delle sue squame bagnate, la schiuma bianca dell’acqua che gorgoglia contro una roccia. Due pendii alti e verdi ai lati, e poi una curva stretta, a gomito, che il fiume è già accelerato via, e chi lo insegue più.
Ma a volte questo fiume rallenta, la corrente si ferma e il livello si abbassa. Così, nel letto senz’acqua, K. può vedere oggetti che vengono trascinati da una corrente fangosa, rotolando sui sassi. Sono pezzi di manubri di biciclette, magliette, pezzi di scarpe, giochi di plastica, pezzi di relazioni, ciarpame, pezzi di affetti, visi di persone.
Quando succede, percepisce una profonda desolazione. Saluta la malinconia. È lo stato d’animo che riconosce di più, che fra tutti gli fa dire “Tu sei tu”. Un manubrio perduto di bicicletta o gli occhi felici e lontani d’una ragazza: pezzi che vagano sui sassi, senza unità, senza identificarsi con un assoluto, un affetto, un qualcosa che è durato fino ad adesso.
Poi la corrente riprende, la melma verde si copre e il fiume a brillare ritorna: ma l’acqua insegue che cosa veloce? Neanche il fiume conosce la foce, le sue fattezze o la sua voce.