Isacco Turina | Non come luce

di Giuseppe Martella
da Non come luce (Terra d’ulivi, 2021)


La poesia di Turina in Non come luce è eminentemente teologica e perciò, per coglierne in pieno il senso e lo spessore, bisogna leggerla sul duplice sfondo, greco-ebraico, della nostra cultura, da un lato, e dall’altro nel contesto della poesia religiosa del Novecento. L’ontologia greca è di natura dialogica dai suoi inizi, dai presocratici più apodittici e oracolari come Eraclito o Parmenide, che tuttavia dialogavano con la propria coscienza, alla sua piena fioritura nei dialoghi platonici, dove Socrate attende sempre una risposta per poter procedere nella propria argomentazione, fino alla sua sistemazione definitiva nel sillogismo aristotelico che, come sintesi astratta del dialogo, costituisce ad oggi la base della logica. La teologia ebraico cristiana invece è essenzialmente monologica, sia come discorso di un Dio che crea attraverso la parola, che come discorso dottrinale su questo stesso Dio. In essa le domande suonano intimamente retoriche, in quanto non attendono nessuna risposta: più che domande sono delle interpellanze inaudite fra creatore e creatura. Ciò appare esemplarmente nel discorso di Giobbe, alle cui domande ostinate e oltraggiose sul male gratuito nel mondo, Dio risponde a sua volta con una domanda sprezzante ed elusiva: “Ma tu dov’eri al tempo della creazione?” Così anche la poesia moderna poesia del pensiero impregnata di spirito greco, da Holderlin a Rilke, da Valery a T.S. Eliot, è di ordine dialogico, esclusa forse quella più strettamente religiosa dove il dialogo con Dio tende a sfumare nella laude, nella preghiera o nell’imprecazione. Tale dialogo interdetto impregna anche la poesia di Isacco Turina che si caratterizza per profezie o domande perentorie, che rimangono aperte come ferite nel cuore del testo. Così, per esempio, “Alla terra operata e mutilata/ che geme senza doglie fra pareti di cielo/ qualcuno donerà uno sperma nuovo.” Piuttosto che: “Nervo del cosmo che suscita preghiere,/ sarò io  capace di capire? (26) Poesia religiosa dunque e ancor più precisamente teologica, perché non si sofferma solo o tanto sul mistero della fede quanto piuttosto sul rapporto precluso fra Dio e il suo Logos, fra il padre e il figlio, fra l’essere e il linguaggio. Ciò vale per entrambe le raccolte finora pubblicate dall’autore ma soprattutto per Non come luce perché I destini minori (2017) si può collocare piuttosto nella sfera dell’antropologia religiosa, mentre l’ultima raccolta presenta una netta svolta teologica e aforistica che si realizza attraverso la condensazione dei temi, la frammentazione del discorso, lo sprofondare delle forme dell’espressione sotto il peso esorbitante dei contenuti, annunciando lo stravolgimento congiunto della grammatica ebraica della creazione attraverso la parola della metaforica greca della verità come disvelamento (aletheia), già nella negazione del Fiat Lux iniziale, che echeggia nel suo titolo. Il valore di questa silloge si può apprezzare in pieno d’altronde solo nel contesto della poesia religiosa italiana ed europea del Novecento, nella sua tematica oscillazione fra l’assenza di dio dal mondo e la sua deposizione. In un percorso che poi naturalmente si intreccia con quello della intera poesia del secolo scorso, in modi molteplici e in luoghi talora inattesi, come per esempio nel Quasimodo di Oboe sommerso, dove ci imbattiamo in questo distico significativo: “È tuo il mio sangue,/ Signore: moriamo.” Qui ci troviamo sul polo della trasposizione di creatore e creatura, cioè della cancellazione di quello scarto ontologico che ha caratterizzato dall’inizio il monoteismo ebraico-cristiano, a partire proprio dai primi libri del Pentateuco, dove si racconta non solo la storia della creazione ma anche l’istituzione della legge e del culto, nonché il ripetuto rinnovo dell’Alleanza fra l’invisibile innominabile Iahvè e il suo popolo eletto, destinato a divenire numeroso come i granelli di sabbia del deserto e a oltrepassare i mari “mediterranei” per occupare l’ecumene, ossia etimologicamente tutta la parte della terra dove si trovano condizioni ambientali favorevoli alla dimora permanente dell’uomo. Già nella promessa dell’Antico Testamento è iscritto dunque quel destino di emigrazione ed esilio che oggi ci troviamo a testimoniare a ogni passo fuori dalla porta di casa nostra, o a ogni occhiata al profluvio di parole-immagini che ci investono dai media. I poeti davvero, in modi obliqui e inattuali, precedono di un balzo gli accadimenti della storia nella dimensione della fiction, dove appunto l’umano appare sempre più come un figmento della creazione, l’esito aleatorio di una costrizione ludica insita nel cuore stesso del favoloso artefice (sia esso dio o il poeta stesso). Così, per esempio, la poesia di Davide Maria Turoldo, interprete della teologia negativa del secolo scorso, per molti versi agli antipodi di quella di Quasimodo, ci parla dell’assenza di Dio dal mondo, ce lo mostra nella sua scomparsa e irreperibilità di fronte alla ricerca del credente: “Inabissato/ nel grande mare, dove/ tu meno di un punto sei”. Ma poi anche in questa espressione canonica del ritrarsi di Dio si insinua il motivo eretico della sua deposizione: “Ora la nostra carne non Ti abbandona;/sei un Dio che si consuma/ in noi. Un Dio/che muore.” Questo motivo è divenuto sempre più predominante nella poesia religiosa del Novecento, trovando delle formulazioni memorabili nei versi di Paul Celan, scritti sull’onda della Shoah, o meglio portati da “quel vento che soffia da sottoterra”, con cui Kafka traduceva in immagine l’etimo di questa parola. Così scrive Celan: Noi siamo vicini, Signore,/ vicini, afferrabili./ Afferrati di già, Signore,/ gli uni all’Altro abbrancati, come fosse/ il corpo di ciascuno di noi,/ Signore, il tuo corpo”. Versi che sanciscono la catabasi del Divino, la sua definitiva caduta nella storia. Questo atto di deposizione, illuminato per frammenti ed epifanie da Celan e altri, verrà elaborato però in una vera e propria confutazione della redenzione solo nell’ultima fase della poesia di Giorgio Caproni, da Il muro della terra in avanti. E’ qui che si consuma infatti una sorta di versione terminale di quella quest del divino che ha attraversato l’intera poesia europea dal Medioevo ai giorni nostri. Essa si presenta ora solo più come una traccia in dissolvenza o come una miniatura della trasposizione dei ruoli, che registra non solo la crisi delle grammatiche della creazione nelle arti del Novecento (Steiner), ma anche l’implosione di quella grammatologia dell’Alleanza che sottende il loro comune repertorio, la Sacra Scrittura, risolvendosi ora in un ostinato, elusivo, pirandelliano, scambio dei ruoli fra creatore e creatura. In una vicenda tanto scarna quanto esattamente articolata nelle tappe del pedinamento, della caccia e dello spodestamento di Dio, nelle varie raccolte, venendo infine firmata in calce dalle controparti, nella occasionale grazia della rima “io/Dio”, offerta dalla lingua italiana come spunto per riassorbire lo scarto ontologico nell’autoriflessività del testo poetico, nonché il sommo interdetto del dictus, l’impronunciabile nome di Jahvè, nella paradossale epifania della sua traccia grafica. Nell’ultimo Caproni questa rima trascendente costituisce il perno della ricerca nelle sue varie fasi. Il pedinamento assiduo e speculare: “Così di rado l’ho visto/…/Ma ero io, era lui?” “Provai a chiamarlo. Alzai/ anche un braccio./… ma lui/ (od ero io?) lui/ già s’era alzato: sparito,/ senza che io lo avessi incrociato.” (Il muro della terra) E poi da questo alla caccia, una forma più arcaica dell’interazione animale, che prescinde dal dialogo verbale in favore di quello sinestesico: “L’occasione era bella./ Volli sparare anch’io./ Puntai in alto. Una stella/ o l’occhio (il gelo) di Dio?” (Il franco cacciatore) Dove ancora una volta l’icasticità dei versi è affidata al genio della rima, intesa in quel senso ampio e trascendentale già indicato, sempre nell’ambito della poesia religiosa, da Betocchi come “un avamposto della poesia”, cioè come la sintonia fonico-ritmica che consente l’accesso all’ineffabile (alògon). Fino alla definitiva e paradossale trasposizione dei ruoli, in Caproni, nell’eco parodica del Padre Nostro in Res Amissa: “Dio di bontà infinita./ Noi preghiamo, per te./ Preghiamo perché ti sia lunga/ e serena la vita./ Ma anche tu, se puoi,/ prega, qualche volta, per noi./ E rimettici i nostri debiti/ come noi rimettiamo i tuoi.” Qui la parodia come figura del discorso, tocca vertici eccelsi, in cui si fondono la bestemmia e la preghiera, la fede e la ragione, l’essere e il pensiero in un ossimoro che racchiude la quintessenza della teologia come discorso speculare di dio e su dio. Così il poeta recupera la reciprocità creaturale a un livello più arcaico di quello della lotta per il riconoscimento, che ha il suo archetipo scritturale in quella di Giacobbe con l’Angelo, o della dialettica Servo/Signore imperniata sullo scambio verbale, nell’interazione ferina e intrinsecamente reversibile fra il cacciatore e la preda. La metafora della lotta cede dunque il passo a quella della caccia, a segnare la rottura dell’antica Alleanza, in quella che è probabilmente la più concisa ed efficace sintesi della teologia negativa del Novecento. Questo coro di voci e questa vicenda di trasposizione figurale sono iscritti in palinsesto nel testo di Turina anche là dove non vengono affatto richiamati. Essi conferiscono ai suoi versi quel peso metafisico che si avverte anche a una prima lettura della silloge. Una dimostrazione di questo assunto richiederebbe però un saggio accademico piuttosto che una recensione. A noi può bastare dunque mettere in luce il punto di aggancio e la specificità del contributo dell’autore alla vicenda religioso-teologica che abbiamo sommariamente delineato. Si può osservare anzitutto che vi sono diversi temi che migrano dalla prima alla seconda raccolta, come quello scritturale della procreazione fuori tempo e per grazia ricevuta della donna-anima mundi, (dalle mogli dei patriarchi alla Vergine Maria) che appare ne I destini minori nella poesia “Mi chiedi un figlio. Ovvero: come un dono/… il portatore sottopelle/ di radici che ignora…[che] restituisca infine/ un granello alla terra, a tutti i libri/almeno una sillaba.” Che viene ripreso poi nella lirica iniziale di Non come luce: “Dimmi il fiore che porti nello stomaco   / che porti nella mente… fiore bianco dell’attesa… La forma che tu vedi è una follia:/ sotto la giusta ombra intimamente/ si muovono i giardini inconsapevoli.” (7) O la figura cristologica della ragazza anoressica “come un ramo abitato da un’idea./ Scesa da un crocifisso in mezzo a noi/ ancora incerta tra la carne e il verbo.” Cui fa eco, in Non come luce, l’episodio della emigrante che svela “il segreto dell’anonimo” e del transumano, narrando l’episodio della propria autofecondazione in vitro: “Muovendo uno specchietto e la siringa/ con queste mani ho impregnato me stessa./ Ipocrita non sei e mi capisci:/ le origini non sono mai pure/…Più avanti non avremo/ né un genere né alcuna biografia./ Lo spirito si scuote queste carni./ (30) E poi quello dei profughi annegati come semi di conoscenza, perché “Solo i naufraghi conoscono il mare”, che verrà sviluppato in un vero e proprio capovolgimento del topos classico del naufragio con spettatore (Lucrezio), in diversi passi della seconda raccolta, dando luogo a una vera e propria apologia della diaspora e della mutazione: “Ora danziamo sull’orlo dei continenti/ come tappeti sbattuti dal vento….Beato chi mai inciamperà/   negli attimi eterni/che ci inghiottirono farfalle /  per risputarci vermi.” (15) E infine quello, eminentemente evangelico, del figlio che fatalmente dimentica la propria origine (“il portatore sottopelle/ di radici che ignora”) e finisce col sovvertire l’antica legge del Padre (“Sta scritto, ma io vi dico” è il leit motif dei Vangeli) e che darà luogo nella seconda raccolta a tutta una genia di diseredati in cui pure alberga il residuo di una speranza messianica. Si potrebbe continuare, ma credo che questi esempi bastino a suffragare la continuità tematico-strutturale fra le due sillogi. Ma la prima sezione di Non come luce, intitolata “Tre d’amore”, accenna chiaramente ai misteri centrali, trinitario e cristologico, della teologia ebraico-cristiana. E l’intera raccolta è poi divisa in tre sezioni, per quanto assai diseguali per l’ampiezza e la tematica di ciascuna, dove scavando nell’affresco veridico della catastrofe ambientale e della simulazione digitale, risvolti complementari della presente crisi epocale, si può trovare dunque, disegnata come in palinsesto, una elaborazione teologico-scritturale. Qui possiamo segnalarne solo pochi fili conduttori: la rivelazione attesa, la pazienza dell’ascolto, l’attenzione come “pietà del pensiero”: “Da una bocca qualunque ascolteremo /    la frase che ci annienta per bellezza/ o crudeltà e porteremo sempre/ in noi come una vecchia sentenza/ che rilascia nel tempo la condanna./ Cibarsi d’ombre fino a quando / sia luce tutto intorno/ è ancora il congedo più bello.” (13) L’attesa di un profeta nella catastrofe ambientale: “Guarda: il deserto sta fiorendo/di bottiglie di plastica immortali./ Cimiteri di copertoni/ che portavano il peso degli uomini /   attendono che nasca/ un profeta dalle loro trincee.” (22) In una apocalisse senza dio, declinazione terminale di ogni messianesimo: “Alla terra operata e mutilata/ che geme senza doglie fra pareti di cielo/ qualcuno donerà uno sperma nuovo.” (26) E infine, dopo l’ecpirosi purificatrice, l’ostinata attenzione alla residua traccia della parola salvifica: “In principio fu la cenere/ perché qualcosa era già stato./ Il grido che dura nella cenere/ ascoltiamo quando intorno è silenzio.” (33) La tensione tra figura e fondo che caratterizza l’intera raccolta viene infine riassunta nella ipostasi del “serpente umanità”, la massa che fagocita il singolo, che qui prende le sembianze dell’antico nemico, il cui nome “è poltiglia di tutti i nomi” di cui ogni sfondo prende il colore, “Umanità  /     vecchia madre demente,/ ultima nemica dell’uomo.” (23) Figure troppo umane che si delineano su uno sfondo babelico e satanico.Dovesi disegna la condizione attuale dell’esilio ecumenico, della solitudine di massa, nello spazio dei flussi migratori, tra il mare che si chiude talora troppo in fretta sugli eredi del popolo eletto e tal altra li trasporta in un nuovo deserto “di bottiglie di plastica immortali” (22): fra l’ipertrofia della cronaca e l’atrofia della storia, nel tempo della precessione dei simulacri – fra la realtà aumentata e il disastro ambientale, nel deserto del reale, dove da un lato “l’edificio di plastiche preziose/ …suda e piange come un’autostrada” mentre dall’altro “le immagini si cibano di noi.” (25) Ai limiti del diafano e del silenzio, nell’interferenza infinita e babelica, nel rumore bianco di “parole      che/ si parlano da sole”, nelle perturbazioni fotoniche dove “lasciamo che tutto accada.” (28) Fra i simulacri della merce e le discariche a cielo aperto, pare non ci rimanga infine che acconsentire alla fusione con le macchine: “il metallo le merci e l’uomo/ confusi nella fiamma che li sposa”, nella “rissa di bellezza e sudiciume/ che scoperchia le fogne del futuro” (26) Immergendosi fino in fondo al proprio tempo in un percorso kenotico che l’autore compie figuratamente dalla sinestesia del surrealismo novecentesco all’anestesia dell’iperrealismo che si profila come la dimensione propria della poesia del ventunesimo secolo. Acconsentendo così all’ennesima riedizione dell’Alleanza della creatura con un Dio oramai disincarnato nel suo avatar digitale: “Seppellitemi insieme al mio computer/…… Né un amico né un cane né alcun altro/ animale capace di rimpianti/ saprebbe accompagnarmi oltre me stesso./ Manichino, dammi la mano:/ con tutto ciò che non è umano/ mi voglio sposare.” (25) La preclusione del tempo futuro ha messo a soqquadro il nomos della terra e la grammatica della creazione. Così alla fine della raccolta si torna al tema iniziale della gestazione della forma di vita e di pensiero che però nel frattempo si è risolta nell’aborto creaturale: “La tua mente era un uovo fecondato /    dove si preparavano grandi ali” ma siamo incappati in “un caos di formiche sbandate / da getti di veleno”, (27) ci siamo votati all’adorazione “degli idoli sciolti e ricomposti / in questa fusione del reale” e abbiamo finito per “linciare l’eternità.” (27) Sicché questa spassionata ricognizione si conclude con una resa dei conti in miniatura con le due grandi fonti della nostra civiltà occidentale: una parodia surreale del mito platonico dell’anima come biga alata (31) e una dell’antico patto fra creatore e creatura, dove si ascolta l’ultima promessa divina al popolo eletto sulla via dell’esilio, sullo sfondo della Sacra Scrittura in frammenti e della cartografia del disastro planetario:  «Signore, non ci vogliono vedere» «Non come luce, ma come la sabbia / penetrerete nei loro occhi chiusi». (32) Con uno scarto dal visivo al tattile che suggerisce il possibile fallimento del “fiat lux” iniziale e dell’intero regime della creazione attraverso la parola. La chiusa consiste in una sentenza sapienziale: polvere alla polvere, cenere alla cenere, così in principio come alla fine dei tempi, e in un testamento che reca le ultime volontà del transumano insieme al congedo dalla tradizione della lirica suggellato dall’estremo sussulto della rima: «Quando mi sarò spento, disperdete/  i miei dati nel vento» (33). Il cerchio sembra essersi chiuso, ma la polvere cosmica degli inizi fa tutt’uno ora con lo sciame delle tracce digitali che abbiamo lasciato, condivise in background da svariate Clouds, nuvole pronte a riversarle come pioggia feconda per i raccolti di Big Data, dove saremo tutti rifusi, conservati e dissolti, eletti e dannati, consumatori-consumati, nella stessa eternità senza coscienza. Così, a trent’anni di distanza, Turina si riaggancia a quei “Versicoli quasi ecologici “, che costituiscono il sottotitolo del libro postumo di Caproni, Res Amissa, e che nel “quasi” additano il tratto che lega ecologia e teologia, la nostalgia di quella “grazia perduta” e irrimediabilmente dimenticata che fu per alcuni millenni la nostra condizione creaturale, una parte integrante di quell’umanesimo che ora ci apprestiamo ad abbandonare.

Rispondi