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Eleonora Rimolo | Prossimo e remoto

cura e introduzione di Gloria Riggio
da Prossimo e remoto (Italic Pequod, 2022)


È in Eleonora Rimolo il lessico dello strappo. Se le parole disperse di un amore che -finito- tace possiedono un luogo, quello è in ciò che accade e si deposita tra i versi di “Prossimo e remoto”. Rimolo dà parola a ciò che soffoca, risemantizza l’afasia di un dolore: in questa raccolta sembra parlare di amore e di tempo senza mai dire le parole amore e tempo, come lasciasse appartenere alla poesia il rischio deposto nel nominare il calco d’aria delle parole che non si osa pronunciare. Infine, da una crepa sulla superficie dura del silenzio, emerge una voce ed è la gloria testamentaria di ciò che non si è detto e più non si dirà, divenuta eco dentro e oltre la recrudescenza dello spaesamento, all’indomani della fine e già dentro la sua gestazione. È Milo De Angelis, nella postfazione al libro, a ben individuare la narrazione dell’archetipo dell’Alterazione «drammatica, a volte terribile che ci getta in luoghi che non riconosciamo, che sono stati sconvolti nella loro essenza e non parlano più la nostra lingua. […] ed anche un volto amato si sgretola e viene portato via dalla corrente.» Sappiamo sì, con la lezione di Eliot, che laddove il privato e il personale non diventino universale e impersonale non può darsi poesia: a chi sia stato dato di conoscere il procedere di un pianto lungo tutto il cerchio dell’addio è semplice intercettare tra i versi le immagini della perdita, e il ricordo di una violenza ovattata come di uno che urla sott’acqua: «le scarpe lacere di distanze», «si diventa/ gomitoli di ossa, sfere di silenzio», «Poi il mattino,/ l’essere trascinati da due braccia diverse in direzioni opposte, fino allo strappo/immedicabile», «tra i denti germoglia una colla/ che non lascia gridare, ottura le orecchie, /risale agli occhi attraverso le guance». Le diapositive di un amore sdrucito dallo spazio, sgranato dal tempo sfumano infine cedendo il passo ad una narrazione che va dal micro al macrocosmo passando per un’isola, ed è il tempo la celluloide su cui si imprime e in fretta svanisce l’eterna vicenda umana per tornare ancora a definirsi e di nuovo, con in fondo una sola cosa da dire: «L’unica certezza dell’essere vivi/ è questo amore che moltiplica e non/ divide».


Microcosmo

Un sole estremo in questo ottobre
e poco altro – un guanto copre le voglie,
le difende dal freddo che le ha crepate:
c’è stata la sera di sempre, un rigirarsi
solitario tra le catene, nel cotone
da sostituire con la lana. Poi il mattino,
l’essere trascinati da due braccia diverse
in direzioni opposte, fino allo strappo
immedicabile. Resta il ritaglio delle ore
in cui non potevo parlarti, la rincorsa
spietata lungo le rotaie e l’amore
che non parte – che non dovrebbe mai partire
per il rischio feroce dello spreco.

                                                                                   *

31 gennaio 1983

Non so parlare altre lingue, neanche
seduta in via modesta valenti 21
dove una babele di terrazze abitate
dall’inverno indica la direzione,
il centro abbandonato del guarire.
Non rispondo e non mi muovo sono
fedele alle regole, innamorata delle pulci
che mi bucano la testa, incerta sulla porta
se a metà di una scala il marmo cede
e le caviglie si aprono, sopra un delirio
di ferite e non si cammina, non si arriva
più all’ombra sognata ma si diventa
gomitoli di ossa, sfere di silenzio.

                                                                       Isola

Abbiamo imparato a dormire seduti
in mezzo alla gente bloccati nella tana
selvatica, a spingere per cercare l’uscita
eppure la grande corrente di ritorno
ci tira sempre verso il largo, noi dentro
mulinelli feroci risucchiati via dalla secca,
atomi nel vortice dei mondi, movimento
a ruota sopra un’elica di carta che poi
ti invio dall’Italia con tutte le mie docili
parole intatte. Questo è l’abbandono.

                                                           Macrocosmo

Qui si vive dentro un’eterna primavera
e intanto si muore lo stesso, l’infanzia
si spacca come un bicchiere, vetro granulare,
per un gesto maldestro: una distrazione
temporanea dalla vita ci espone al sole,
alle calde correnti che assopiscono
e infettano l’ulcera ai bordi delle strade
dove si prega per tornare ad essere soli
come un tempo, quando non si dormiva
con gli odori di nessuno e non si sognava
un altro finale ma si restava macchine piccole,
macine mosse dall’acqua e dal vento
libere e verticali, con i fori gonfi di grano
pronte a ingoiare la polvere, il dolore
– in frantumi.

                                                                       *

Il mare qui è un composto semplice, arancio
liquefatto nell’atmosfera, gas che annega
e brucia tutto: questo è l’odore di un’altra
vita, cresciuta al margine di una memoria non mia,
aliena fantasia di un attimo che sposta l’asse
mutando sogni e pianeti, senza distanza.
A volte lo sento in uno svoltare di strada,
appartiene a un passante, al suo stare
in un giorno reale: forse sono tornati
davvero gli dèi e tu non senti più il vuoto
nella pancia ma profumi di miti, stagioni
immortali, eroi che travasano la superficie
nel nero abissale e saltano, di nuovo, per amore.

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