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Antonella Sica | L’ira notturna di Penelope

a cura di Giuseppe Martella
da L’ira notturna di Penelope (Prospero, 2022)
fotografia di Greta Asborno


Ho incontrato Antonella Sica di recente, in occasione di un evento poetico. Non avendo mai letto niente di lei. Incuriosito ho acquistato il suo ultimo libro, L’ira notturna di Penelope, e l’ho letto d’un fiato non pensando affatto di scriverci su una recensione. Ma il testo mi ha catturato nelle sue pieghe, come una tela di ragno una mosca, nei suoi punti in croce, nelle sue scuciture notturne che preludono alle albe di nuovi giorni. Come la tela di Penelope che disegna in contrappunto il labirinto marino di Ulisse, le svolte dell’intreccio dell’Odissea, compiendo l’archetipo frastagliato del Nostos omerico come lo stampo di ogni narrazione letteraria avvenire. Non solo, ma anche dell’interpretazione di testi e messaggi, dell’ermeneutica insomma, esistenziale e filosofica: la cura dell’interpretazione, genitivo soggettivo e oggettivo.
Questa Penelope dis/fa infatti ogni notte con cura, con ira temperata, la tela che tesse nel rosario dei giorni. “Notturna” è qui da intendersi anche come ctonia, fuoco che cova sotto le ceneri, e “ira” appunto è da intendersi come “temperamento”, sia in senso psicologico che musicale. Da un lato come la misura di colei che, animata da una passione indomabile, sa tuttavia alzarsi da tavola quando ha ancora fame. Dall’altro come quell’insieme di accorgimenti tecnici che consentono di modulare i temi di una forma sonata, e di passare tra i modi, maggiore minore, in quella “fuga per canone” che è l’espressione di una vita, con le sue variazioni, pause, accordi, sviluppi e riprese, in vista di una risoluzione finale che non arriva mai.
Pensiamo dunque all’Arte della fuga di Bach come a un modello da tenere a mente, accanto a quello dell’Odissea, nel nostro viaggio attraverso questo labirinto marino, costellato di tempeste e approdi provvisori. Perché il mare qui, screziato di riflessi e lampi, è il materiale di costruzione delle architetture poetiche di cui si tratta. Delle case e delle stanze in cui si abita: case dell’essere e stanze della memoria, rifugi e prigioni di un’esistenza domestica che si apre sul cosmo periglioso e affascinante di una che vuole viaggiare leggera, consapevole che “non c’è terra mai/ ma il viaggio”. (53) Di un io poetico, insomma, che sa temperare la sete di scoperta di Ulisse dalla mente tortuosa (polytropos), con la pazienza altrettanto astuta della sua sposa che ordisce piccoli inganni quotidiani, compiendo insomma una ricognizione speculare rispetto a quella dell’eroe: cercando cioè di dare un senso alla propria vita, di riempire le proprie “stanze vuote”, scucendo e ricucendo a proprio modo quella tela di Ananke che le antenate le hanno cucito addosso come un destino; disfandola sempre di nuovo punto a punto, in una caparbia temperata insurrezione, “combattendo/ l’ira notturna di Penelope”, (2) per una composizione di luogo che è al contempo esercizio spirituale e poetico, l’apprendimento del mestiere di vivere e dell’arte di catturare l’angelo nella sillaba. In una costante equivalenza fra tela e testo, nonché fra compitazione e costruzione. Fra vivere, costruire e abitare. Del resto poesia e costruzione sono etimologicamente connesse, così come il tedesco Dichtung (poesia) e il sanscrito tichtein (tetto). Così si costruisce man mano la bugia poetica come farmaco (rimedio-veleno) per il disincanto del mondo e per il disamore che lo alimenta. Il rovescio del fuoco, il suo riflesso nell’acqua o nel vetro di una finestra che si fa specchio della tua ombra.
L’amore infatti, nella sua incostanza, è il protagonista di questa silloge: il grande demone ambivalente del Simposio, figlio di Poros (abbondanza) e Penia (indigenza), perennemente inquieto e bisognoso di cura, ma in grado di fornire quella linfa all’anima che può farle spuntare le ali per spiccare il volo verso un cielo di idee che potranno incarnarsi negli accordi di un amore riuscito che spezzi le catene della legge e scuota le mura del tempio, rischiando di suscitare l’invidia degli dei. (Calasso). Eros uranio e ctonio, macro e microcosmico. Eros che crea fresche figure nella coda dell’occhio, nella periferia dello sguardo, nel suo ripostiglio segreto – sguardi e riguardi della memoria: “Ti porterò in periferia/…Ti porterò, quel giorno,/ a cercare tutto il bello/ dimenticato nel doppio fondo/ del nostro sguardo.” (21) L’amore condiviso che scuce i nodi del tempo, consentendone un nuovo montaggio, rinnovando il progetto esistenziale ai confini del silenzio e della luce, e che poeticamente detta l’alternarsi di battere e levare, di pause e riprese, di vuoti e pieni, in un vissuto che da sé si cancella depositandosi ne luogo congiuntamente composto e nella pronuncia del nome dell’amato: “da quando ti amo/ non esiste più l’amore/ ma solo il tuo nome/ e un posto dove siamo.” (24) In un costante equilibrio fra scrittura e vita, tecnica e respiro, che trova un senso nel “labirinto di parole”, animato da un refolo di vento. (26) Nel variegato gioco degli sguardi che caratterizza tutti i canzonieri d’amore: nell’accordo felice, nella giusta misura guadagnata attraverso la cura reciproca, la grazia di una gioia condivisa che fa della stanza prigione un nido provvisorio e uno scrigno per l’integrità del sé. Un’integrità sempre da ricostruire, attraverso svuotamenti e cadute, sdoppiamenti e annichilimenti, dubbi, pieghe e ripieghi, eccessi e perdite, crepe e disperazione, gettando dalla finestra del corpo prigione sguardi periodici sugli scenari dei decenni che si succedono nella nostra memoria. E magari trovando talvolta un “Transitorio porto sicuro” nel bambino che abbiamo generato o che ci portiamo dentro, obbedendo ai legami del sangue, disegnando per lui “strade di parole e case di nebbia” (46). Rievocando il profilo del fanciullo divino (Kurios) che gioca sulla spiaggia dei primordi rimescolando sabbia e sassolini e così dis/facendo un mondo nella terra madre, e scavandosi in essa un buco in cui sparire (grembo e nicchia ecologica), e poi all’improvviso correre incontro alle “onde bianche a ridare/ l’uniforme di sabbia al fondo.” (48) In una tenera spassionata evocazione del distacco che ci attende tutti, madri e figli, a ogni biforcazione evolutiva, onto e filogenetica, quando “s’allenta il nodo della somiglianza” (50) e lui, erede d’amore (nome e genoma) appare all’orizzonte come “un funambolo vestito di nebbia/ in bilico sull’ordito della mancanza” che “ad ogni filo tuo ne sottrai uno mio.” (50)
E’ così che infine si può pervenire allo svuotamento del sé, alla “vita semplice delle ombre”, (52) nella comunione poetica ed esistenziale, nell’intreccio ribadito, nella convergenza punteggiata, tra vita e scrittura: “ogni vita si riassume/ in una pagina scarna/…in un punto solamente/ e un congedo senza parola/ scritto ancora nel corpo/ che mai sarà memoria” (54), in un percorso scandito da “punti di non ritorno”, nella consapevolezza acquisita della carenza costituiva dell’eros, dell’amore insufficiente, come principio di raccordo tra vita e forma.
Nel ricordo ancestrale di una infanzia del mondo presso cui non si può sostare a lungo, sui confini tra i regni del creato dove, in una lontana eco dei Quattro Quartetti eliotiani1, “bambini sacri corrono sul tronco/ fanno capanna all’ombra delle fronde/ mischiando bisbigli e indovinelli/ alle carezze incerte delle foglie.” (58) E come nella cosmogonia orfica qui, nella luce lunare, il vento e la notte si uniscono per generare un uovo d’argento da cui nasce Eros e da lui tutte le cose, “il loro nero ingombro.” (59) In una genealogia in miniatura, una delicata vertiginosa discesa attraverso le case abbandonate del mare dove si incontrano “piccoli granchi/ tenera corazza/ [che] corrono sorpresi/ pensieri inattesi” (60) o gocce che pregano “sulla soglia/ della ferocia primordiale/ di ciò che mai sarà detto.” (62)
Nel gioco ormai collaudato tra dentro e fuori, micro e macrocosmo, dove il male si può declinare in tono minore, quotidiano, domestico, “nell’avanzo di percorsi abituali” (65). Fino a che, a mo’ di epilogo, nel solito connubio di vita e scrittura, si disegnano in anticlimax costellazioni della traccia, nella pacata consapevolezza della loro impermanenza: “i miei fogli di tormento/ diventeranno carta/ su cui appuntare i fantasmi/ di una nuova vita/ o la lista della spesa.” (66)
Schegge di parole in via di espropriazione che si condensano nella dichiarazione di una poetica del pudicizia, nel senso suggerito dalla parola “Aidos” (che significa pudore e misura, modestia e rispetto), personificazione di una divinità greca arcaica, spartiacque fra Vendetta e Giustizia, soglia mobile e resiliente fra la rete di Ananke e la bilancia di Dike: cesura po/etica, tratto che lega mondo e discorso, riassumendo l’insurrezione temperata e coltivata nella giustezza delle figure e degli accenti dei versi che fluiscono senza schemi preordinati ma obbedendo a una misura intima che trattiene l’incandescenza interiore, da cui più che lampi accecanti emanano una luce e un calore diffusi, come una radiazione cosmica di fondo o la fusione nucleare lenta di un atomo di idrogeno custodito nel cuore di questa Penelope che ha imparato combattere punto a punto la propria ira notturna, trasformando l’eredità ricevuta nella vocazione per ciò che Saba chiamava “poesia onesta”, quella che non si abbandona all’artifizio fine a se stesso ma cerca solo di custodire ed esprimere l’urgenza che preme di dentro: “le mie parole sono semi custodi/ dei germogli della terra di dentro/…Per questo non posso dar voce/ a un dolore che non conosco:/ per pudore, per rispetto/ per non trovare un giorno in mezzo al petto,/ un mazzo di fiori di plastica rossi/ né vivi né morti.” (69) A questa interpellanza ho risposto in sintonia, senza nessuna premeditazione.


1“Via, disse l’uccello/ perché le foglie erano piene di bambini/ nascosti con eccitazione, trattenuto il riso. Via/ via, via, disse l’uccello: il genere umano/ non può sopportare troppa realtà.” (Quattro quartetti: Burt Norton, I, vv. 44-45)


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