Site icon Inverso – Giornale di poesia

Michele Bordoni | Poesie

a cura di Lorenzo Pataro
fotografia di Riccardo Frolloni


I

Il cabbalista nel piccolo schermo,
nella sua breve lezione su Youtube,
spiega che la parola male רצ (ra)
leggendola al contrario ci ridonaצר (ar)
che vuol dire svegliarsi, perforare
la campana di vetro e di ripetizione
in cui come un criceto si è finiti.
Il male, quindi, come scossa, sprone;
e poi, immettendo una vocale al punto
giusto, il dolore1 diventa un caro amico2 ,
la gioia che promette una futura
fioritura che squarcerà la terra.
Prendo il mio corpo, il mio corpo linguistico
a modello, smembrando le vocali
del nome e del cognome, rimestandole
le infilo nelle pieghe delle mani,
corpo a corpo vocale e consonantico,
parole come organi sul tavolo
dei trapianti.
Il dolore e il male
che proprio adesso rigonfiano l’anima –
al punto che è persino contemplato
il coltello da cucina come bisturi
adatto a incidere la pelle per farla germogliare –
non trovano inversioni che diano senso.
Che sia l’ordine delle persone
incontrate negli anni a dover essere
rovesciato? Che siano i cromosomi
a dover essere letti al contrario?
Rovescio anche le vecchie poesie, quegli
esercizi per resistere al dolore
in cui il male – più che amico – è radice, fondamento
granitico e marino della voce,
quando ancora credevo che lo scrivere
versi avrebbe potuto consegnarmi
a un’altra dimensione, a un altro ritmo
rispetto a questo franto e disorganico
nei cui versi cerco il verso giusto
di legare e ricucire insieme i resti,
le anatomie del bene.
Se non altro ho compreso
la causa del mio lungo legame con l’insonnia,
il male che ti sveglia e ti costringe
a rimanere desto, oltre il coprifuoco della notte.


Note

1 כאב Pronunciando la parola come “keév” si ottiene dolore
2 כאב Pronunciando la parola come “kiév” si ottiene amico


II

Il prete dietro al plexiglass sta immobile. A vederlo da qui, da questa sedia, neanche socchiude le palpebre mentre la turba di spagnoli fedelissimi si abbona all’aldilà con due monete, il costo dello sguardo alla reliquia. Il sangue di Cristo nella teca d’argento arrossisce per lui, che è ormai un pinnacolo di luce immateriale, puro spirito, figurina di marmo dentro al muro. Sembra essere un’immagine dipinta, una meccanica caduta da un ordigno celeste.

A me piace e non piace questa luce fiamminga e polverosa che entra dai vetroni, e questi colori di terra che raccontano una storia che non ha né tempo né corpo. Non mi fido della tonaca del prete. Il legno dietro all’oro è geometria, simmetrico riflesso strutturale di un altrove che dicono sia qui, ma più sfocato, opalescente, tanto che per vederlo lo si mette in alto, stirato come un tendine o un rampicante astratto, un filo a piombo o un Giacometti di muscoli. Una materia araldica, sfibrata, che non si riconosce nell’attesa di un tutto che la renda più che membro corpo intatto, figura a tutto tondo, non più solo rigagnolo di pioggia sopra il vetro.

Siamo ancora all’auriga di Platone, al cavallo riottoso e rompipalle. “Ma come non amarlo quel somaro” mi dico solo sulla sedia di vinile della chiesa, consegnato allo sguardo di plastica del prete che pare invece di tutt’altro avviso. “Spogliati delle tue quattro spoglie”, mi dice, “strato a strato di pelle, fino alle ossa. Assumiti una forma vegetale, automa o foglia d’acero, imponiti di far di te un Michele irraggiungibile, inciso su un arazzo o su un pennone”. E io che immaginavo solo belli gli angeli capisco quanto possano impaurire nell’atto della trasfigurazione, mi tengo stretto l’asino o il cavallo zoppo, già mezzo fuori dal recinto di pelle, qualche dito già solo come un ramo.

III

Sulla barca tu dormi. Dormi e una coppia
di anziani si protende nell’ardire
di un bacio oltre il biancore di ringhiera
che ci salva dall’acqua.
Le mie mani
rimangono distanti dal tuo sonno
nascosto dal cappello e dal pareo
che copre nero per metà il tuo candore.

I cerotti si imbrattano di sangue sulla barca,
i tagli delle dita ricompongono
la tua costellazione di dolore.
Lo scafo sminuzza la spuma
mandandola in frantumi come il vetro
che poche ore di qua da questo imbarco
mi conficcavo in mano come chiodi
per immobilizzarmi, per avere
un idolo da infrangere in contraccambio
della tua liberazione da me stesso.
Sono queste le firme che mi restano
del tuo passaggio di cometa, una lama appuntita
che corrode e squarta, scuoia e sbrana
fino all’osso della mente.

Dicevano di scrivere col sangue,
ma adesso che la penna è insostenibile e cadendo
imbeve d’inchiostro la pagina bianca
mischiando il nero al rosso, il rosso al nero,
adesso che le bende mi si staccano e rimargina
la cruna di dolore sulle impronte,
ricordo quella volta quando, dopo
l’amore, per gioco mi scrivesti
con le unghie il tuo nome
fra le scapole aperte, impreparate
al bisturi feroce dell’affetto.

Sulla barca tu dormi. Forse ignara
di me che guardano le mie mani rosse
ricerco fra le scapole il tuo nome.
Siamo stati anche questo, segnature
profonde nella pelle, cicatrici d’epidermide.

Exit mobile version