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Lorenzo Rossi | Poesie

cura e introduzione di Lorenzo Fava
in copertina John Constable, Dedham from Langham, 137 x 190 cm, London, Tate


Scrivo questa manciata di righe per fare i conti con la mia visuale su un poeta pressappoco mio
coetaneo e mio concittadino, nonché omonimo nel nome di battesimo, Lorenzo Rossi. Con la sua
scrittura mi confronto da diversi anni. Una scrittura nominale che procede per minuscoli frammenti che fa, come solo la poesia può fare, dell’unità-verso la sua stessa consistenza. Evita accuratamente la punteggiatura, Lorenzo, e io ci avverto una modalità espressiva precisa, il riscontro di un’urgenza che non fa eco a nessuna altra voce poetica della sua – nostra – generazione. Un incedere, quello dei versi di Lorenzo, che valorizza una sintassi ultradiretta abbinata alla precisione dei termini: ”l’aderire cutaneo delle cose leggere / le sue mani andare verso l’incavo della schiena / il sale grosso precipitare sul muscolo scoperto / tra buio e buio indovinare la cruna dell’arteria/”. La poesia come resa dei conti, in cui “ogni pretesa di tregua decade prima dell’arrivo / il tuo peso si forma dai lamenti attorno / la distesa ti guarda come cosa già sua”. Se è vero che la fantasia d’immagine è una delle grandi condizioni dello scrivere poesia, Lorenzo ha nel suo bagaglio di poeta, da eccellente matematico qual è, la precisione dello “spazio metrico” a cui abbina un sentire di cui personalmente condivido la geografia marchigiana ma, ad una diversa latitudine umana, condivido il percorso: la lingua come valvola sul pensiero, il lirismo come via di sbocco, di maturazione e infine conoscenza di se stessi. “Chiedi con gli occhi la fine dei colori / con la penna impugnata a fatica /al mare di alzarsi e superarti”: la prosodia e l’intento immaginifico, il tentativo di creare, con la scrittura, una realtà che racconta essenzialmente di lirismo, quello crudo, spesso giovanile, proprio di chi però ha una portata immaginativa amplissima, un intento sincero e un bagaglio lessicale che attinge dall’astrazione alla materia, e descrive. Descrive qualcosa di invisibile e lo proietta nel linguaggio secondo schemi già solidi. Come detto, è l’unità-verso ad essere presa e ripetuta secondo schemi sintattici generati da meccaniche che seguono un flusso preciso: un battito che pone i suoi accenti forti in maniera regolare, cadenzata, fino a farne una vera e propria, seppur unica nel suo genere, cantata di frammenti. Da un lato questo aspetto del dettato implica una frammentarietà del discorso che non può essere espunta, forse proprio per quel suo essere connaturata al respiro, qui inteso come vero e proprio fiato, respiro fisico, di cui la vocalità necessita. Mi arriva da queste pagine una lingua fresca, che non pare mai forzata anche quando l’inarcatura lirica si fa ripida, mi arriva una voce che non ha paura di mettersi in gioco perché della poesia ha un’idea mai cristallizzata ma sempre precisa. Rivedo, nei nostri percorsi di scrittura, l’energia propria di un parlare di argomenti antichi cercando l’espressione innovativa, non ponendosi limiti nel formulare soluzioni metriche o virare fra i significati per dare un peso specifico ad una parola più che ad un’altra. Elementi di riflessione su cui sono io il primo ad interrogarmi, sia nella scrittura di Lorenzo che in quella in versi
largamente intesa.


ogni pretesa di tregua decade prima dell’arrivo
il tuo peso si forma dai lamenti attorno
la distesa ti guarda come cosa già sua


*

per noi c’erano altri posti altri piani
a chiederci dopo i saluti se la cena basti
se fosse necessario un distacco fortuito
dalla perdita dal tardi dal somigliarsi

lui chiuso all’angolo lei che avanzava
il grigio dei contorni raggrumarsi nella gola
le distanze frantumarsi lungo cuciture

l’aderire cutaneo delle cose leggere
le sue mani andare verso l’incavo della schiena
il sale grosso precipitare sul muscolo scoperto
tra buio e buio indovinare la cruna dell’arteria

dallo stesso punto fino a collimarsi
sotto i piedi secchi aghi e sassi che risalivi
e ancora sento ovunque scricchiolare


*

senti svanire le persone e i pasti
la mano che ti porgeva il piatto
il sale tolto dai capelli ispidi
ricordi d’altri che parlano ai tuoi
si riconoscono indifesi
la scalinata su cui siedi ha il bianco dei riflessi
le labbra secche senza niente su cui posarsi
chiedi con gli occhi la fine dei colori
con la penna impugnata a fatica
al mare di alzarsi e superarti

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