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Milo De Angelis | Linea intera, linea spezzata

a cura di Lorenzo Fava
da Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021)
fotografia di Dino Ignani


Non vi lascio parole d’amore, diari, bigliettini […]

Trovo sempre complesso avvicinare i maestri, se per maestro si intende qualcuno con un percorso lungo e riconosciuto. Cerco di leggerli come credo si leggerebbe se si avesse la consapevole possibilità di vivere un tempo infinito, una linea retta. La scrittura produce lo stesso movimento dell’ascolto, ma rovesciato. Linea intera linea spezzata non è solo un arco della produzione di Milo De Angelis, è una manifestazione del linguaggio della fine, la costanza di un pensiero da un lato distruttivo “Non sarà una morte qualsiasi, diffonderò il mio dolore / nel mondo […] inghiottirò l’ostia / della vendetta, morirò in un fuoco prodigioso” dall’altro, come pure si evince dalla storia di ogni grande poeta, tendente a fare i conti con “la serietà della morte” che “accompagna” nei luoghi di una geografia atta a rendere estremamente vivido il pensiero in chi riceve, etimologicamente re-capit, ossia ri-prende, le parole di questo libro. Se la costruzione del verso sembra richiamare l’esametro latino è forse per la traduzione di De Angelis, uscita di recente sempre da Mondadori, di Lucrezio. Al di là di discorsi metrico sintattici su quantità, accenti ed enjambement, la naturalezza mai scontata con cui questa metrica “doppia e dispara” accoglie la meditazione di chi scrive sulla potenza della vita è sbalorditiva. Se è vero, merinianamente, che “le macchie di sangue sui fogli risaltano anche alla lettura”, Milo De Angelis rende più che mai cristallina, evocandola, la chiamata della poesia, “infinita pena che non ha origine e mi ha scelto”. Poesia e destino, su cui da molto ci si interroga, sono in queste pagine, come altrove nella produzione di De Angelis, nello stesso rapporto che tengono, nel corpo umano, vene e pelle. Le parole di De Angelis, azzarderei, ci sono più vicine della giugulare, con la particella pronominale ad intendere la specie umana che porta la croce-delizia della percezione di tutte le infinite sfumature che l’animo umano può provare. Leggendo Linea intera, Linea spezzata non percepisco limiti, né nel linguaggio, che è portentoso, né nell’ambito del senso, ossia la direzione che il libro, volente o nolente, prende. Se con gli antichi cardini della poesia classica la figura di De Angelis ha un rapporto stretto come le sue traduzioni e le sue letture testimoniano, questo rapporto serve ad affrontare la scrittura come qualcosa che riguarda l’umanità nel senso più vasto del termine. Una cornice temporale nel volume si può trovare, ad esempio, nei nomi propri, ma è un tempo, seppur sicuramente preciso ed individuabile in chi scrive, che entra in chi ascolta come si parlasse di lui stesso. Che la traccia di queste liriche abbia condizionato larghissima parte della poesia odierna credo sia vero, e sia vero non meno del fatto che, come detto sopra, fare i conti con la scrittura di un maestro sia complesso. Questa manciata di righe, utile forse solamente a me a definire meglio quale sia il tratto che più mi affascina di una scrittura, mi rivela un senso profondo di quello che la vita di un Poeta può essere. Sento alcune pagine attraversarmi più volte al giorno, le ripeto a voce alta, lascio che mi trapassino come un vento, un’idea allo stesso tempo mortifera e vitale. La lettura di pochi poeti cambia, nel percorso di ognuno di noi, la percezione del testo, l’impressione di cosa un poeta viva e scriva. La potenza di un’esistenza non si misura, può essere detta solo generazioni e generazioni dopo. Io credo che fra due secoli i poeti che rimarranno di quest’epoca saranno accomunati dalla profondità con cui attraverso la lente del linguaggio si son guardati dentro, predicendo ed interpretando, ognuno con la sua voce ma una comune educazione al canto, gioie e tormenti della specie umana. Ma bastasse la percettività ad essere Poeta, molti sarebbero quelli in grado di scrivere versi. Lo studio, la ricerca in cui De Angelis guida chi lo legge trova in Linea intera, linea spezzata tutte le istruzioni necessarie ad una piena assimilazione non solo della vicenda di un uomo, ma anche del suo modo di comporre. A pagina 89 si legge: “[…] non puoi non puoi non puoi dormire e non serve / il fenobarbital il secobarbital l’amobarbital non serve / l’azione breve né quella protratta perché la tua infinita/ insonnia giunge da un luogo arcano e senza origine […]”. Nonostante pochi abbiano nozione di cosa questi nomi chimici possano rappresentare contro insonnia e dolore, credo che chi legge poesia, indipendentemente dalla spinta vitale o dai crucci che porta, possa capire come l’articolazione nella lirica di elementi provenienti dai campi più disparati (in questo caso, la chimica) sia un’arte nell’arte, una vera e propria innovazione che rende De Angelis un poeta fuori dal suo tempo e che tuttavia in questo tempo è immerso senza tentativo di fuga. La chiave di volta, io credo, per far sì che termini specialistici siano integrati nel lirismo è la giustificazione metrica delle loro sillabe, la fittissima tessitura di rimandi che, cadendo sugli accenti forti – le quantità lunghe – fa sua la lezione della metrica classica cui accennavo poco fa. Se, barthesianamente, il linguaggio poetico fosse una prosa arricchita da metrica, rima e immagini, mi permetterei di dire che la combinazione di questi tre fattori con cui in questo volume l’autore si misura col grande tema della morte dà un esito non solo originale e riconoscibile, ma anche capace di parlare al cuore di ognuno mettendosi in contatto con il più profondo terrore umano alla ricerca di una parola che pienamente lo descriva. Trovo emblematico che l’ultima parola dell’ultimo componimento del testo, che è titolato “penultimo discorso di Daniele Zanin”, sia proprio “morte”. L’ultima strofa, a pagina 104, dice: “Cominciai a vedere nelle lampadine spente / il viso di mio padre, cominciai con la mia cannuccia / a succhiare veleno, mi immersi / nell’acqua passata / e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione / nella bocca, mi tolse la parola: sentivo le urla / dei pazzi in una culla di catrame / finché di colpo appassì l’ibisco e mi accorsi / che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino / dormiva la morte”. Quanto è presente nelle nostre esistenze questa invisibile traccia che ci scruta e, fra infinità e nulla, ci determina!

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