a cura di Francesco Terracciano
Oggi scrivo dalla placenta del mondo
dov’è pace di fiume ai muscoli
e lascia un orologio di spuma sulla riva.
Fisso paralitiche notti
nel silenzio duro alla collina
tento l’ignoto a parete
volo di penombre e calamari.
Ma c’è chi moltiplica segni
per darsi regola al mondo
e radice e fumo equanime di nascite,
e chi per spinta propulsiva
conobbe un abbandono filiale.
Così rimango, eretta statua, le braccia conserte
e la testa sprofonda di pianto
bagnando il mio petto celeste.
Mi aspetta ancora il grembo, il lago amaro
di pena e il conseguito silenzio.
*
Quei giorni da favola, sotto un cielo
d’un blu tremendo, gravido,
si stagliò e di spini urlò
l’acacia intagliata dalla luna
(aperti tutti i becchi della sete
i boccioli ferite telescopiche).
O fu il germoglio che bucò il gelo
in sudore su spalle di mare
uomo mi vide e ferito, in tremore
per archi il velo delle ossa.
Amico agli ultimi, mi ebbero i cani
scalcianti luce dalle zampe
dove penzola il monile dell’estate
e l’uccello che l’alba divora
mi chiamò da un posatoio d’ombra.
Allora verrà il folletto dalla nebbia
e appenderà al gancio, ripiegandoli,
a uno a uno mattini a sgocciolare.
*
Da quale sete ti sollevi uomo
se il braccio destro cade, l’amputa la notte
ma vedi scintillante dalla pelle
l’albero per tutte le foglioline del sangue
idraulica turbolenza di monete.
Ti visita un destino per una presa di sale
il buio colato dalle mani
incalza di numeri il mattino
il muro al bivio dello sguardo, lo sbaglio
della minestra portata fino agli occhi.
Riempivi il cielo di medaglie
per urli la tua sete tempestosa
sul legno dove t’inginocchi, scosso
a sentirlo sotto le tue mani
il tarlo che infuriò celeste.
*
Non mi aspetta il ristoro dei santi
il fresco del rampicante alle ossa
l’alba che schiera le sue cifre di marmo.
So le curve geografiche su cui la mano
quadrata s’appoggia del padre
(la sua voglia) socchiuso buio di atlanti
si fa quiete benedetta ed osservanza.
Ma non mi era in pegno il saldo nitore delle cosce
i nervi luminosi fino alle mani
il rettangolo puro dello sguardo
se dal soffitto della camera, memoriale
di archi e cieli acuti, cercavo il gelo
l’abbraccio tutto buchi della nebbia
il magnete che attrasse folgori e gabbiani.
Mi vedi con gli altri fermo sullo scalino
della visione, arreso al desiderio
fui uomo e finito.
*
Agli amici non dico le notti
ai limiti del confessionale
segretezza a sfiorire dà alone
e occhiaie alla fame. La memoria
liquida dilegua come un gatto
insegue un’ombra, la traccia
del sale battuto sulle piste.
Tra gli amici c’è chi dispiega
il suo fazzoletto, quadrato mare
con raffiche d’azzurro;
e chi fa suonare, sulla piazza,
le rosse monete del destino.
Restano i dubbi, i devo, i dire mai,
per cui a remare imparammo dal fondo
di cieli solcati allo specchio
e io, amici, non vi seguo più.