Site icon Inverso – Giornale di poesia

Ad alta voce | La poesia di Cristina Carlà

cura e introduzione di Gloria Riggio
da Cartolina dal Salento (Collettiva Edizioni Indipendenti, 2022) e altri inediti


La poesìa ète nn’arte feroce,
te scaorta le nthrame


Preghiera a Santu Nuddhru


Chi conosca la scucitura della partenza, le lenzuola su cui, dopo il viaggio, fiori di malva e di ortica attendono il sonno per dimorarvi in forma di liberazione e di rimpianto, chi conosca lo strappo lasciato a dirupare la terra della storia di chi lascia la propria e vorrebbe non volerlo (forse, piuttosto, sceglierlo), chi abbia confuso in sogno le proprie radici con un vespaio di murene e poi con le mani di sua madre, chi a quelle mani e radici abbia fatto ritorno con in cuore un dizionario di missioni, chi lo abbia poi redatto solo alle voci “miseria” e “misericordia”, si accomodi: questo viaggio ulteriore parla anche di ləi.

Cristina Carlà non scrive poesia, passeggia insieme a lei su strade di stoppie combuste conversando con ironia amara sui cumuli di rifiuti lasciati abusivamente agli argini delle strade di campagna, ci beve insieme bicchieri di mirto, le tira via dai palmi delle mani le spine dei fichi d’india: insieme discutono sui morti ammazzati dai fumi delle acciaierie e li congedano ad altra vita con un commiato ed un augurio di ultimo – vero – respiro, benedicono il profumo del pane fatto in casa la domenica mattina e la terra sotto le unghie dei bambini.

Qui, se c’è un dio è confutato – svelato nella sua più materica forma di sistema, di ordito di doveri, peccati, colpe ed educazioni – e sacrificato all’altare di un dio maggiore che ha foggia di terra – la terra foggia di Madre – chi lo conosce, santifica e vive ogni sua testimonianza: Eppure ti prego /come prego le abbazie piantate /sole in cima alle rupi, //come prego [..] il sole che ti scandisce muta/io ti prego/poeticamente, Madre.

Ed infatti un pantheon di santuzzi riempie le vie delle pagine di “Cartolina dal Salento” (Collettiva Edizioni Indipendenti, 2022) e di icone sacre e visi alabastrini o cretosi, di segni più che simboli, spie ed indizi cui valga la pena di dedicare un esercizio di incanto quotidiano e familiare tanto che se uno volesse, dico sempre per assurdo, potrebbe facilmente scrivere tomi interi sui panni appesi ai balconi delle case, dunque
Santo il mercato coperto del quartiere Paradiso di Brindisi/Santa l’insegna intermittente della pescheria/[…] Santo il degrado santa la purezza santa la ferocia//Santa santa santa. Santa la poesia, pure la mia.

Questa parola irrequieta, scalmanata e teppista, questa parola turgida, è segno di una poesia scritta per essere detta, letta, memorizzata e citata male ad un amico cui si confidino reconditi voli interiori e usata in sostegno dei volteggi delle loro più slanciate traiettorie; questa è, all’origine, una poesia pensata mentre era già parola viva: […] Fuori c’è il disordine delle classi sociali, c’è chi un libro non lo legge perché non sa quanto una storia possa influenzare la sua vita. Perciò sto fuori e dico le poesie per strada, nei bar e nei quartieri popolari: perché non si sa mai.”

Carlà si assume la responsabilità della poesia orale e civica, individuale e insieme collettiva e della diramazione che nasce, possibile, dentro il terreno di quel “non si sa mai”. Il suo manifesto è tutto nella sua preghiera in dedica a Santu Nuddhu, il santo cui i salentini usano rivolgersi per non bestemmiare dio, – dirottando cioè a lui le imprecazioni, come fossero così annullate – ed è, non a caso, una preghiera in dialetto in cui il significante – pure spogliandosi di certa stratificazione di postura – compenetra i significati rendendoli in questo modo, se possibile, ulteriori.

Santu Nuddhru miu, ióu la poesìa ogghiu cu lla cercu/a inthra alle manu sante te li panettièri,/a inthra all’ecchi te li furištèri,/quiddhri ca rrìanu te mare, te terra e cca sàpenu/caminare fòre te li sentièri/[…]

Il dialetto diventa così meta-manifesto, e insieme riconduce all’alfabeto delle cose del mondo, se è vera quella sua natura di – con Zanzotto – logos erchomenos, sorgiva della parola e «primo mistero» attraverso cui giungere alla radice buona e gelosa che forse abbiamo perduto (o forse no): Una velleità di tregua a volte mi acceca, mi pizzica/ gli occhi, mi fa accorgere che forse il mistero più dolce/ si trova alla fine di un viale, dietro quell’eucalipto in fondo a sinistra.

“Cartolina dal Salento” è una silloge che procede per quadri, è un glossario di luoghi, e in effetti l’apostrofe in apertura di molti componimenti tradisce un rapporto interlocutorio con la terra: Per te mi spoglio dai veli di sposa,/mi mostro imperfetta macchiata di rosso, laddove questa non sembri addirittura del tutto sostituirsi – nelle sue reliquie divinatorie – alla voce dell’io lirico: […]la mia pelle è un tappeto infinito/di pietre sconnesse.

La stessa terra riserva una sorta di apprendistato della morte, coadiuvato a un tutorato part-time della speranza – o, insomma, di una parola che sappia di fede, di miracolo, di sorriso. Originata dalla lotta silenziosa e capillare (e dalla sua giustezza e professione: “la mia terra vera è un conato degno di contemplazione”, scrive) è nelle poesie di Carlà – tutte inquadrate nel contesto socioculturale di un’Italia in cui la questione meridionale non è mai stata risolta, è soltanto più moderna – la denuncia di un tacito contratto d’omertà condivisa: Quando gli alberi presero ad ammalarsi,/diedero la colpa a qualcos’altro/senza mai [dico mai]/lasciar trapelare quella parola.

Dunque la parola autentica a domandare: tacere la morte la scongiura? E rispondere: al contrario, tacere la morte la invera. Per questo la parola.

Viva allora le grotte di Badisco/le orchidee selvatiche, la luce a menzatìa/viva le albe di Otranto, i tramonti dietro una torre/viva le pale te ficalìndie/ quella volta che ho visto le lucciole a Porto Selvaggio/le piante di capperi […]
La verità è che non si può essere morti per sempre: vive solo chi lotta, vive solo chi ama.

Punteggia la geografia del libro – monito e presagio ancora proveniente dalla terra – un fiorire spontaneo di asfodeli, anticamente considerati la pianta degli inferi. La poesia impiegata qui come strumento d’indagine sulle traiettorie dell’agire collettivo assume un tono ineludibile se si pensa che la rappresentazione dell’oltretomba presso i greci prevedeva che il regno dei morti fosse suddiviso in più parti e che i Prati di Asfodeli fossero destinati a chi era stato «né buono né cattivo»:

Ci attendono prati immensi di asfodelo,/su cui sentir ronzare il codice delle api,/ci attendono spighe bianche e gambi sott’aceto:/il sapore del rimpianto/per noi che in vita non siamo stati né buoni né cattivi,/per noi vili sopravvissuti alla pazzia.// […] La scala triangolare, quella in legno e fil di ferro/quella coi pioli tarlati da un’eternità/ci aspetta tra i rami e non lo sa, ancora non lo sa:/non glielo voglio dire/che noi non ci siamo più.

Ma se ancora un ritorno ritorna non è più soltanto alla propria terra madre, alla propria porzione originaria, è a una terra che diventa ogni terra e tutte le terre, ogni terra fisica e politica, ogni terra terrena, ogni terra spirituale da cui: […] con forza/estirpare la malerba.//A ogni strappo sentire/come un bianco solletico interiore, il male che sfila/via attraverso rami di vene/immaginari e respirare/e lasciar andare e stare. Dalla quale, infine, dire: È pratica faticosa/la cura, amica mia,/ma vedrai col tempo/vedrai, che bel raccolto.

Infine, questo “amica mia”, inquadrato nel prospetto delle figure che a esergo costeggiano le pagine del libro di Carlà -Achmatova, Pozzi, Durante – non pare giungere privo di significato e, anzi, si inserisce in una storia ulteriore di recupero delle proprie radici consegnata alla custodia delle antenate, e interseca la sua ricerca a quella già inaugurata, affondando in una terra a sua volta da scavare sin giù dove perenne brucia il seme/primordiale, il cerchio magico delle streghe.



da Cartoline dal Salento

Quando non avrò più trent’anni
ali di ventaglio accanto agli occhi
vibreranno a suon di valzer
verso te che saprai di roccia, mirto e fichidindia,
migliaia di buongiorno e buonanotte.

Io appese attorno al collo
avrò perle di figli, nipoti e marmellate,
parmigiane traboccanti di quell’odore buono
che si espande dalle case la domenica mattina.

Quando non avrò più trent’anni,
noi ne avremo cinquanta insieme:
sul tuo viso, amore, tutte le mie strade.

Funnuvojere, Marina di Corsano


*

La culla in cui sono rinata
somiglia a un fiore di tarassaco: spontaneo
mi protegge, sul ciglio della strada
(mi) si disperde e ai margini
dei campi coltivati si fa piuma
di vento e desiderio. Possiede nel cuore
luce e semi di fuoco che disegnano e si fanno
presenza visibile, metafora di forza
e di fiducia. Qui dentro imparo
le parole che sanno
finire e quelle lingue che fanno
vedere le crepe più candide e latenti,
le catastrofi vitali che abitano l’orto sacro
‒ selvatico e sacro
della mia ferita.

Via Giusti 24, Lecce

*

E poi
creare un varco
per la linfa e il nutrimento
liquido, lo spazio
per il frutto che verrà;
sgomberare, dicevamo:
il campo dal superfluo
che sottile e precisissimo
s’insinua fitto e succhia, terribile
s’impone, aguzzo parassita.
Spezzar la foglia è illudersi:
in pochi giorni rispunterà
brillante. Andarci allora
con intenzione risoluta,
smuovere il terreno
con le mani, stanare
la radice più gelosa
e tirare, con forza
estirpare la malerba.
A ogni strappo sentire
come un bianco solletico
interiore, il male che sfila
via attraverso rami di vene
immaginari e respirare
e lasciar andare e stare.

È pratica faticosa
la cura, amica mia,
ma vedrai col tempo
vedrai, che bel raccolto.


*

È tornata la luce
bianca tra le strade strette del centro. Sbatte
sui muri nuova, sgretola lenta la pietra
leccese come fosse carne,
carta da macero secca. Nel vicolo
due balconi si guardano verdi
di piante e foglie e fiori
lisci come lingue vergini mai parlate
finora. Da dietro una tenda la voce
di un uomo canta in ritardo, segue
alla radio una canzone
che gira, rimbalza qui
tra i muri del vicolo: dice che fuori
dai quadri delle madonne
è primavera.

Centro storico di Lecce

Preghiera a Santu Nuddhru

Nginucchiata te frónte a ssignurìa,
Nuddhru miu Santìssimu
ulìa cu tte rècitu ’šta preghièra
cu la ucca mpaštata te suenni e desidèri.
Ulìa cu bbusu tutte le paròle ca sàcciu
e ccu le mmišcu cu nnu picca te acqua
comu se face cu nna miticina a inthra a nnu bbicchièri.

Nc’ète ggente ca ole ddenta importante
cu ll’arte, la sai? Ca ole štae te cošte
a Picasso, a Mozart, te cošte a Alighièri.
Iòu, santu Nuddhu miu, nu bbogghiu
štau ammienzsu alli muerti,
me fannu paùra, me pùzzanu li cimitèri;
iòu ogghiu štau ammienzsu alla ggente,
a inthra alli salòni te li barbièri,
ogghiu štau assubbra alli pariti te le case,
ammienzsu alla lišta te la spesa, assubbra alli cantièri.

E poi, poi me piacia puru cu štau
ttaccata assubbra alli frigorìferi,
te cošte alli disegni te li piccinni
o ammienzsu alli atthrézzi te li carpentièri;
ulìa le paròle mei cu bbèssanu comu nu bbrascjèri
ca quandu quarchetunu sente friddu
le pòte usare cu sse scarfa lu còre,
cu sse scerra pe nnu picca te tutti li dispiascèri.

Eccu, nginucchiata e ccu le manu ggiunte
te prèu cu sse avvèri ’šta profezzìa
mia te piccolezza, št’idea ca tegnu an capu
te nna poesìa fatta te versi leggèri,
crudi, puliti, onešti insomma,
pe qquištu a ffiate scritti malvolentièri:
versi ca rèndenu santa nna furmìcula, na simente
e cca improvvisamente ddèntanu cratèri
addu nci pueti tthruare verità piccinne,
abbissi nìuri e mištèri
addu nci pueti catire inthra e sprofondare
senza niscjuna paùra, senza pinzièri.

Iòu te prèu santu Nuddhru miu, cu mme proteggi
te le ambizzioni scellerate e tte tutti li potèri,
consèrvame fràggile,
a ffiate thrište a ffiate scherzósa,
fanne cu mme nde futtu te li pareri
te cinca iéri me uardava fiacca e óscje invece,
sol perché me tthrou te frónte a vvossignorìa,
me inchie li panièri.
Fanne cu rreštu antica come le péthre,
resištente comu li bbatteri
a ttutti li discórsi imbellettati, alli cìrcoli,
alli salotti chini te candelièri
addu se riunìscenu quiddhri ca se dìcenu cólti;
ebbène, pe mmie suntu carcerièri
te palore nate ammienzsu alla ggente,
te sfumature e ssueni ca unìscenu li emisfèri
e nde fannu na mappa te umanità,

na mappa te bellezza
addunca simu tutti ggiocolièri
te vìrgole, règole te grammàtica,
tutta ddhra sèrie te critèri
ca rèndenu la poesìa schiava te certi dovèri.

Santu Nuddhru miu, ióu la poesìa ogghiu cu lla cercu
a inthra alle manu sante te li panettièri,
a inthra all’ecchi te li furištèri,
quiddhri ca rrìanu te mare, te terra e cca sàpenu
caminare fòre te li sentièri
ca m’anu mparati a mmie quandu era piccinna.
Ogghiu cu ccrèu versi sincèri
scritti cu llu sangu, cu lla terra riarsa; iùtame
cu pparlu alla ggente te sentimenti vèri,
te quiddhru ca simu quandu niscjunu ni uarda;
pe mmie, crìtime, tutti li zzìnzuli su ddeletèri.
Te prèu cu llu còre,
nu mme fare ddintare comu a ddhr’intellettuali,
ddhri tècnici te la lingua sevèri
ca pàssanu le scjurnate chiusi
a inthra a ccàmmire chine te pùrvere, priggionièri
te le pàggine scritte e alla larga, sempre alla larga
te li fatti ca invece ìnchienu li quartièri.

Iùtame cu uardu le cose te lu mundu
cu lu sguardu àmpiu te li thrampolièri,
cu ssopravvivu alle tempešte
comu fannu li vecchi velièri.
Ci me faci ‘šta gràzzia, santu Nuddhru miu,

te promettu ca riešti pe ssempre
l’ùnicu protettore te l’ànima mia,
n’ànima fatta te universi passeggèri
addu nun c’è ppošttu, te lu ggiuru
nun c’è ppošttu pe li ricchi messèri,
pe li bbueni te facce, pe lli pparolièri.

La poesìa ète nn’arte feroce,
te scaorta le nthrame, ète nnu meštièri
addu pòtenu succèdere bbrutti incidenti,
addu pueti ccappare a mmanu a ccerti ddèmoni fièri
ca nu tte llàssanu an pace fénca a quandu nu mmuèri.
Quandu sarà, ddhru ggiurnu,
iéni ssignurìa, famme štu piascèri,
pìgghiame pe mmanu, cussì ióu poi te uardu
e tte ticu: va bbène, scjamu, volentièri.

Preghiera a Santu Nuddhru


Inginocchiata di fronte a vossignoria,
Nullo mio Santissimo
vorrei recitare questa preghiera
con la bocca impastata di sogni e desideri.
Vorrei usare tutte le parole che conosco
e mischiarle con un po’ d’acqua
come si fa con una medicina nel bicchiere.

C’è gente che intende diventar importante
tramite l’arte, lo sapete? Che vuole stare accanto

a Picasso, a Mozart, accanto ad Alighieri.
Io, san Nullo mio, non voglio
stare in mezzo ai morti,
mi puzzano, mi fanno paura i cimiteri;
io voglio stare in mezzo alla gente,
nei saloni dei barbieri,
voglio stare sui muri delle case,
in mezzo alla lista della spesa, sui cantieri.

E poi, poi mi pacerebbe anche stare
incollata sui frigoriferi,
accanto ai disegni dei bambini
o in mezzo agli attrezzi dei carpentieri;
vorrei che le mie parole fossero un braciere
così che se qualcuno ha freddo
possa usarle per scaldarsi il cuore,
per dimenticare per un po’ tutti i dispiaceri.

Ecco, inginocchiata e con le mani giunte
vi prego che si avveri questa profezia
mia di piccolezza, quest’idea che ho in testa
di una poesia fatta di versi leggeri,
crudi, puliti, onesti insomma,
per questo a volte scritti malvolentieri:
versi che rendono santa una formica, un seme
e che improvvisamente diventano crateri
in cui si possono trovare verità bambine,
abissi neri e misteri
dov’è possbile caderci dentro e sprofondare
senza nessuna paura, senza pensieri.

Io vi prego san Nullo mio, proteggetemi
dalle ambizioni scellerate e da tutti i poteri,
conservatemi fragile,
a volte triste a volte scherzosa,
fate che me ne fotta dei pareri
di chi ieri mi guardava male e oggi invece,
sol perché mi trovo di fronte a vossignoria,
mi riempie i panieri.
Fate che resti antica come le pietre,
resistente come i batteri
a tutti i discorsi imbellettati, ai circoli,
ai salotti pieni di candelieri
in cui si riuniscono coloro che si dicono colti;
ebbene, per me sono carcerieri
di parole nate in mezzo alla gente,
di sfumature e suoni che uniscono gli emisferi
e ne fanno una mappa di umanità,
una mappa di bellezza
in cui siamo tutti giocolieri
di virgole, regole di grammatica,
tutta quella serie di criteri
che rendono la poesia schiava di certi doveri.

San Nullo mio, la poesia la voglio cercare
nelle mani sante dei panettieri,
negli occhi dei forestieri,
quelli che vengono dal mare, da terra, e sanno
camminare fuori dai sentieri
che hanno insegnato a me quand’ero bambina.

Voglio creare versi sinceri
scritti col sangue, con la terra arida; aiutatemi
a parlare alla gente di sentimenti veri,
di quello che siamo quando nessuno ci guarda;
per me, credetemi, tutti i fronzoli son deleteri.
Vi prego col cuore,
non fatemi diventare come quegli intellettuali,
quei tecnici della lingua severi
che passano le giornate chiusi
in camere piene di polvere, prigionieri
delle pagine scritte e alla larga, sempre alla larga
dai fatti che invece riempiono i quartieri.

Aiutatemi a guardare le cose del mondo
con lo sguardo ampio dei trampolieri,
a sopravvivere alle tempeste
come fanno i vecchi velieri.
Se mi fate ‘sta grazia, San Nullo mio,
vi prometto che resterete per sempre
l’unico protettore dell’anima mia,
un’anima fatta di universi passeggeri
in cui non c’è posto, ve lo giuro
non c’è posto per i ricchi messeri,
per gli impostori, per i parolieri.

La poesia è un’arte feroce,
scava le viscere, è un mestiere
in cui possono succedere brutti incidenti,
in cui si può cadere nelle mani di certi demoni fieri
che non mollano fino al giorno della nostra morte.

Quando sarà, quel giorno,
venite vossignoria, fatemi questo piacere,
pigliatemi per mano, così io vi guarderò
e vi dirò: va bene, andiamo, volentieri.

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