introduzione di Alfonso Guida
da Microcosmi (Ensemble, 2022)
fotografia di Dino Ignani
I Microcosmi di Ilaria Palomba si arenano in endecasillabi vaghi ma decisi dopo un lungo e asfissiante cammino nella selva oscura e luminosa, tra contrasti. Sono liriche sull’amore mancato. Il randagismo, quale figlio crudele della solitudine, si fa espediente d’illustrazione figurativa: qui tutto è tensione e slancio alla materia. C’è una traccia mnestica del passato e la perseveranza dei nodi infantili che si estendono da un tempo remoto a un tempo indefinito come la speranza. Versi del Nostos calmo e terso. Verso dove si dirige la nostalgia, l’essenzialità del dolore ridotto a pochi resti, poche visioni? Il punto d’arrivo vive nella consapevolezza dell’uomo come miraggio o assenza. Il pensiero rimpiange ciò che non è stato e tuttavia poteva essere; eserciti di ombre, qui, mascherano la luce in un teatro contemplativo e ossessivo. Ilaria Palomba si estende sulle righe di un pentagramma filosofico.
Le lingue dicono ciò che l’altra non vuole,
fatemi partecipe del vuoto, non so
correre sulle lische dimenticate, ancora pregne
di ruggine e mani, le vostre. Mi avete
accarezzato? Lo scarto della menzogna
sulla pelle, nei muscoli, fino alle ossa.
Seguo con l’iride nera la donna che accartoccia
nei giornali residui di cibo, le stesse ossa.
Vivificare le preghiere, per tornare a casa:
un borgo che non ha più campo
snebbia nella bolgia del tempo,
lei raggomitolata raccoglie il fiato
per ricordare che si è stati qualcosa.
*
Non siamo adatti al presente:
in che lingua salvarlo, lo scempio?
Guardali, sono diventati identici
tutti simultaneamente morti,
li vedo salire, avvampare,
ostili, marcescenti.
La piazza è vasta e vuota,
nell’acqua un cherubino pietrifica
iridi. Moltitudine vacua,
solitudine inane.
Chiudi gli occhi, non guardarli,
hanno odore di ruggine, macerie,
ferro vecchio, garza medica.
Pietrificano e restano inchiodati
a una storia deforme, immane.
Non siamo che statue invernali.
*
Lasciala morire, quella che muore,
e lascia venire alla luce chi nasce,
in te nasce una donna che muore.
È troppo presto per dichiararsi battuti,
siamo ancora beati, vivi e morti,
su questa terra irta di croci, dove
ogni notte spiriamo per risorgere.
*
Invernale, come la quarta stagione,
hai rastrellato i confini del sottosuolo.
Tra le rovine, invano, nel boato hai
cercato una lussuria sudicia in ogni
materia. Rinata alla carne, fuori
dalla stanza della tua adolescenza,
aspetti il disgelo, e guardi in basso.
Qui restano solo ossa, aghi di pino.
*
Se ho sacrificato è stato per rivolta:
lì si moltiplicano croci. Ma in fondo
al calvario è una mano inumana.
Nessuno perdona nel tempio. Fuori
non siamo che strali colmi d’invisibile.