di Riccardo Canaletti
fotografia di Dino Ignani
Marco Corsi è un poeta silenzioso e complesso, che lavora nell’intersezione tra lirica e sperimentazione sulla parola, senza mai travalicare i confini del senso a favore di facili e comode mode anti-poetiche. Il suo La materia dei giorni era già stato discusso su Inverso ma stavolta la parola va a lui.
Domanda di rito. I tuoi riferimenti poetici tra i classici e i viventi?
Ho letto molta poesia, per studio, per formazione, a volte per pura curiosità. Non ho mai cercato niente in un poeta, semmai mi sono messo in ascolto di ciò che aveva da dirmi. Nessuno può prevaricare le ragioni di una poesia, quando è vera poesia. Ma tu vuoi i nomi… e io ora mi sento in una fortezza piena di torri: Saffo, Eschilo, Lucrezio, Guinizzelli, Arnaut Daniel, Luis de Góngora, Leopardi, Montale, Rosselli. Per i viventi è diverso, perché molto passa dal rapporto che talora ho la fortuna di avere con ciascuno di loro. O almeno con quelli che sento più affini. Dovremmo essere comunque più indulgenti con le nostre intenzioni, prima di pensare che mettersi a bottega sia sufficiente per meritarsi la stima degli altri.
La poesia è una forza di cui si è parlato molto, tentando di bilanciare i suoi ingredienti: ispirazione, lavoro di lima, impulso, istinto, razionalità, stile, metrica, e così via. Qual è la tua ricetta?
Non ho una vera ricetta. Ultimamente mi è capitato di sentire più volte Patrizia Valduga esprimere una condizione della poesia che sento molto affine al mio rapporto con la scrittura: Valduga ricorre al concetto matematico del “punto di sella”, per definire quel momento in cui tutti i sistemi sono in equilibrio e si possono scrivere dei versi. Spesso mi capita di ripetermi qualche parola nella testa, a volte dimentico di trascriverle prima di andare a dormire. L’indomani, se il verso è buono, rimane. Da lì si può iniziare un testo. Tuttavia, mi è aliena la pratica quotidiana della scrittura. Passo periodi molto lunghi in cui non scrivo niente; ed altri invece in cui la pressione è talmente forte che il gettito si fa repentino e continuo. Credo poco all’ispirazione, ma confido nell’idea, nel pensiero che necessariamente anima la poesia, senza per questo sentire la necessità di confessarlo. Aggiungerei solo che lo stile si definisce a posteriori. Forse i poeti d’avanguardia cercano nel testo una riprova scientifica. A me piace chi cerca la sperimentazione mescolando le carte in tavola, sia sul piano metrico-formale, sia su quello emotivo-cognitivo. Tutto deve contribuire alla visione del testo.
Ne La materia dei giorni (Manni, 2021) la pasta della quotidianità assume un valore diverso, più ampio. Forse è quello che fa la poesia, tradendo il quotidiano per parlare dell’eternità. Ma un poeta non può essere fuori dal tempo. Quindi, non può eludere i problemi storici, e individuali. Partiamo dal primo. La poesia può/deve parlare della storia che va formandosi intorno? La guerra in Ucraina, la pandemia, la Brexit, e così via. Se sì, a cosa fare attenzione? Non si rischia di scivolare verso la stesura di volantini di propaganda?
Parlare dell’individuo implica una riflessione sulla specie. Non sono bravo a citare a memoria i filosofi, mi lascio piuttosto suggestionare dalle loro immagini. Filosofi, antropologi, sociologi. La poesia che svela le sue intenzioni, lo dicevo prima, non assolve il suo compito. Si può trovare la misura per narrare gli orrori più grandi, oppure un ritmo per trasformare la cronaca in fatto vero: tutto è possibile, ma si rischia l’impermanenza. Qui entra in gioco lo stile. Nessuno si sognerebbe mai di dire che quella del Porto sepolto è poesia d’occasione. E cosa dovremmo dire delle poesie di Marianne Moore? MarÍa Zambrano sosteneva, e la considerazione è valida tuttora, che nel nostro contesto storico-culturale, poesia e pensiero si contrappongano con nettezza. Siamo noi i veri complici di questo assunto. Mi è capitato di leggere versi bellissimi della poetessa ucraina Iya Kiva profondamente radicati nell’attualità. Ed è poesia, perché nasce da una necessità. Da parte mia, ho cercato di allargare la prospettiva partendo dal singolo e riconducendolo alla specie, fino ad arrivare alla prospettiva corale del “noi”: un pronome sempre meno usato, oggi, in poesia. Questo ho tentato di fare anche nella più recente plaquette Appunti per un incendio dell’occhio, edita da Stampa 2009.
Arriviamo al secondo tipo di problema. I problemi individuali. Sempre in La materia dei giorni scrivi: «quando il poeta giunge in prossimità della morte è come la bestia che fiuta nell’aria l’odore mutato dei corpi.» Come ti poni nei confronti della morte, come uomo e come poeta?
La morte è un momento di confine. Impossibile da oltrepassare. Non può esserci consolazione. Solo materia. Mi torna in mente una poesia che stava in Pronomi personali:
la felicità è saperti successivo
dove non c’è evoluzione nei corpi
solo la materia inerte
di cui ti sei fatto bello
a immagine di un dio solo
senza padre e senza fratelli.
Lì riflettevo sul concetto di “felicità” a partire da un passaggio di A Single Man di Isherwood. Nel nuovo libro ho giocato a rimpiattino con la morte rubando, chissà se poi è vero, un’espressione a Dino Campana: «fissavo l’ombra sul muro». Poi però mi sono reso conto che il discorso non era esaurito, che dal privato dovevo cavare qualcosa di più. Avevo già iniziato a scrivere le prose della sezione Stretching e ho capito che lì, in quella dimensione metapoetica, potevo aggiungere qualcosa di più, aprire il pensiero attraverso le immagini. In primo luogo mi è venuto in soccorso il mito – insieme a Anne Carson. Nel mito non è infrequente che gli uomini vengano tramutati in bestie; ho provato a immaginare una condizione di prossimità più immediata, sentendomi privo di altri mezzi. Ecco come hanno agito, insieme, l’uomo e il poeta.
Altra domanda di rito. Cosa pensi della poesia italiana di oggi? Sicuramente il mercato offre molti autori, alcuni buttati in pasto al pubblico e ad altri poeti per colpa di un’editoria che non filtra più, soprattutto se pubblica in cambio di denaro.
Ho pubblicato la mia primissima plaquette, L’inverno del geco, per le edizioni Gazebo di Mariella Bettarini e Gabriella Maleti. Ho contribuito alla stampa di quel libriccino. Ricordo che rimasi molto stupito dell’unica recensione ricevuta, che se non mi sbaglio fu di Giuliano Ladolfi. Da quell’esperienza è nato un po’ tutto, perché quelle pagine, forse, si poneva in dialogo con una collettività attraverso la lingua – o meglio, attraverso la ricerca di una lingua. Diversa è stata la consapevolezza quando ho accettato l’invito di Franco Buffoni a partecipare al Dodicesimo quaderno di poesia italiana, ma l’impulso era lo stesso. Fare qualcosa “con” gli altri. La poesia non può essere soliloquio, e fosse anche per verso, per poche parole, per un giro fortunato di suoni, ecco, quel verso e quelle parole devono incidere. Spero di non essere stato troppo spesso vittima di autocompiacimento, cosa che spesso mi capita di leggere nei versi altrui. In generale, vedo poca disponibilità al dialogo, o molto ristretta. Poi ci sono casi in cui qualcuno sembra trovare la vena d’oro per affermarsi repentinamente. Ma siamo consapevoli di come funziona il nostro sistema… o no? Consapevolezza e responsabilità, questo mi raccomando.
Tre parole e due righe di spiegazione per ciascuna. Una parola che associ alla poesia, una che associ alla vita, una che associ all’amore.
SUONO: credo nella poesia lirica, quella che ha un ritmo condivisibile dagli altri, che crea condivisione emotiva e di pensiero – e il suono delle parole è il suo primo veicolo.
SENSO: la direzione che imponiamo alle cose, quello che siamo o, più semplicemente, quello che vorremmo essere è ciò che ci ostiniamo a chiamare vita – con sentimento pieno di adesione.
RIGENERAZIONE: «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ti basta?
Qual è il tema più abusato oggi secondo te? Magari importante, ma su cui si dovrebbe prima riflettere di più?
Ribalterei la questione e cercherei di capire cosa esattamente significhi mettere a tema qualcosa in poesia. Questa, di fatto, mi sembra la sfida più ardua. Nessun tema, di per sé, è deprecabile, se sorretto da una forma e da una progettualità che consentano all’organismo poetico di camminare con le sue gambe. Il tema non più essere una stampella dell’ispirazione; la musa malata degli argomenti è già stata esautorata di tutto. Certo, non bisogna incappare nel rischio opposto, ovvero quello di una troppo corroborata scelta formalistica. Anche in questo caso, è bene trovare il “punto di sella”. E magari tenersi il più possibile vicini alla vita, per non risuonare a vuoto e risultare volontaristici.
Qual è il tema che vorresti trovare più spesso nei libri di poesia?
Il viaggio. Seguendo quel modo che ha coniato Biancamaria Frabotta con La viandanza. Ma voglio ricordare anche Geografie di Antonella Anedda. Due esempi diversi tra loro, uniti dalla buona sostanza della parola.
Vorrei chiederti di regalarci due testi, uno tuo e uno di un poeta che ami o hai amato.
Marianne Moore
What Are Years
What is our innocence,
what is our guilt? All are
naked, none is safe. And whence
is courage: the unanswered question,
the resolute doubt, —
dumbly calling, deafly listening—that
in misfortune, even death,
encourage others
and in its defeat, stirs
the soul to be strong? He
sees deep and is glad, who
accedes to mortalit
and in his imprisonment rises
upon himself as
the sea in a chasm, struggling to be
free and unable to be,
in its surrendering
finds its continuing.
So he who strongly feels,
behaves. The very bird,
grown taller as he sings, steels
his form straight up. Though he is captive,
his mighty singing
says, satisfaction is a lowly
thing, how pure a thing is joy.
This is mortality,
this is eternity.
Marco Corsi
Aspettando l’onda a Santa Barbara (inedito)
Dopo aver attraversato campi di bovini
e altrettante infestazioni di ortensie,
siamo arrivati in prossimità dell’oceano
dove giovani surfisti lucidavano i cuori
bianchi con molle grasso di balena.
Ora in verità io credo che la lingua sia
come un grosso cuore di parole
sempre pronte al trapianto,
una scarica improvvisa nella notte,
come in quel libro della Kerengal1
amato un tempo fino alle lacrime.
1 Il riferimento è a Maylis de Kerengal, Riparare i viventi, ed. it.: Feltrinelli 2014