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Riemersioni | La poesia di Nedda Falzolgher

cura e introduzione di Gloria Riggio
da Poesie (1935 – 1952)


Dall’ombra le cose dicevano:
accendi la lampada, ascolta;
e l’anello sia saldo alla tua porta.
A notte verrà dal sentiero
chi legherà il cavallo al limitare.

Ancora le povere cose dicevano: viene.

Ma per le strade serene
non c’era che il passo del vento.

Fiaba, Sulla terra piena di rose, Nedda Falzolgher

La poesia di Falzolgher è una poesia tattile: naturografia pura di cui il verso s’imbeve e attraverso i cui suoni si fa corpo e insieme vi sfugge, tradendone gli assiomi, trasmutandone i confini, unendosi e disunendosi a dio, alla carne, a lei. Leggere Falzolgher rassomiglia al fare una passeggiata durante la quale, come un richiamo preciso e silenzioso, si sporga la mano oltre il fianco sino sentire i fili di rugiada tra le dita. La poeta disfa le bordature materiali e si dà in pulviscolo dorato irradiarsi nella luce del tramonto, in corrente fluviale, in ansito d’attesa divina, in intimo colloquio col cielo, in tensione e insieme forza epidermica, in richiamo come d’un canto sottile e collettivo.

Della vicenda umana e della produzione poetica e dell’assottigliarsi della distanza- se esiste – tra le due, della luce che proviene dalla fenditura di questo chiasmo, degli amici e compagni, di ciò che fulgido e inafferrabile in Falzolgher si dà in fissità fugace, in impressione, della ferita e intima forza solare, della bellezza feroce inondare lo spazio bianco della pagina, si restituisce – si tenta di restituire – nella prima puntata del podcast Lungo l’Adige – dedicata alla poeta.



Fin dove il polline cade

da Fin dove il polline cade (Ubaldini, 1956)

Le parole dei figli

Fammi ponte alla vita
col tuo vivido corpo d’amore,
madre che sei l’isola in fiore
dove il mio tempo è fermo tra due mari.

Tu che avevi sapore di rose
nella carne ferita,
lascia che io cammini e non ti veda.

E prega per la mia nuda fame
se il tuo cuore fosse pane
dal petto ancora te lo coglierei
per i giorni miei desiderosi.

Corrente

La casa a specchio sul fiume,
così sola nell’urlo delle piene,
ha lasciato un giorno di amore
per ogni onda che viene.

Dalla terra l’hanno sospinta i gridi
come una barca protesa sul filo del vento,
l’acqua vi porta a rilento
le nuvole fin dall’aurora.

E galleggia alle porte la vita
appena ferma in un gioco di spume;
sull’aperto sciacquio del fiume
ogni palpito è voce di vigilia.

E nella casa marina il silenzio
pieno di azzurro divenire
ascolta battere alle gronde
ogni stormo al suo primo partire.

La terra

Ti ho respirata con l’alba
per non destarmi sola,
e ti ho chiamata nelle notti amare,
sorda di pietre e giovane di stelle
sotto il cielo che scende e non consola.

Ho veduto nel mio pianto infantile
tutti i colli velarsi e lontanare;
ho udito cantare gli uomini
per non sentirsi morire.

E la mia carne ti ritrovi,
o benedetta nei fiori e nei rovi,
terra, unico amore.

L’ondata

Di giorno la mia porta
è una chiglia affiorante che vibra
al respiro alto del mare:
l’universo la viene a inondare
fiorendo col sole.

E le cose vivide e innamorate
passano nella mia casa pura,
e dicono caldi nomi di creatura,
di piante, di stelle serene.

Nei giorni che nulla avviene
felicità è nel vento
e porta vite in cammino
dal silenzio raggiante.

E la gioia passa con l’onda
che la riva larga ribeve:
rinasce più oltre, più breve,
e il mare torna e la consuma.

Ritmi dell’infinito

da Ritmi dell’infinito (1937 – 1949)

Fino a sera

Mendicanti in amore,
seguiremo le nubi alte che vanno
e abbondoneremo lungo i prati
le bisacce dei sogni disperati,
ma chiederemo il pane della vita
e ce ne andremo al sole
tra un respirante biondo di campane
lungo cancelli di perduti orti:
dentro le mani, innamorati e assorti,
divina umile cosa
porteremo quel pane, ed una rosa.

L’ora dei tramonti

da L’ora dei tramonti (1950 – 1952)

Il padre nostro dei disperati

Male nostro che sei nei cuori
siamo come la terra senza lumi;
avanti che la notte ci consumi,
lasciaci il vento a fiore della polvere
e rimettici l’ora dei tramonti,
anche se rinunciammo a tante aurore.

O male nostro che sei dentro il cuore,
siamo ancora più di mille
lungo il mare tormentato;
ma allora ci sfamò con cinque pani
il Vagabondo dimenticato,
e quel suo gesto, povero fra noi,
lo disperse la mareggiata.

Ora dormiamo alla disperata
su disfatti sentieri,
all’addiaccio di oscuri desideri,
sotto la luna d’agosto
accecata da lente fronde.

La marea diffonde
la veste bianca lungo il litorale.

O nostro male, qual era il suo nome?
(Che stormire di vertici la voce
sparita in ogni scatto d’ala!)

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