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Isabella Leardini | La coinquilina scalza

cura e introduzione di Lorenzo Pataro
da La coinquilina scalza (La Vita Felice, 2005)
fotografia di Valentina Solfrini


L’esordio fulminante di Isabella Leardini, un libro-culto che ha avuto più edizioni (i cui versi di alcune delle poesie seguenti sono stati ripresi dal cantautore Vasco Brondi – Le luci della centrale elettrica – nelle canzoni “40 km” e “Mistica”, rispettivamente “Ma in fondo che cos’è la giovinezza, /cosa doveva essere oltre a questa / tremenda corsa in ciao sotto la pioggia /al vento… verso casa di qualcuno.” e “Io sono quella che di notte / ascolta tutti gli altri respirare”), è una sorta di piccolo romanzo in versi il cui racconto si snoda attraverso il ruotare delle stagioni, un ritorno circolare che delle stagioni (soprattutto l’estate e l’inverno) segnala l’ossessiva presenza, anzi la compresenza, di un amore assoluto e di un amore mancato, nemmeno presentito dall’Altro, il cui nome sfugge sempre, un Tu fantasmatico dentro il quale l’autrice abita silenziosamente, scalza, timidamente, un amore sempre in atto e mai in potenza, forse anche per questo più vivo, più vero, più autentico. Un libro, questo, a cui si ritorna per la sua cantabilità, se uno dei segni distintivi di Isabella è un naturale ritmo e un uso sapientissimo della metrica che non è mai fine a se stesso, ma sempre funzionale al significato e ai cerchi nello stagno che la sua parola-sasso genera. Una parola dunque che non lascia mai indifferenti, che torna in maniera naturale a risuonare anche a distanza di tempo. Una parola cantabile, come dimostra il cantautore ferrarese. Proprio questa cantabilità mi porta a fare un accostamento inusitato e al quale ho subito pensato, la prima volta che ho letto questi versi. Forse l’amore non corrisposto cantato da Isabella, un amore dell’aria, che si perde nel vento, un amore invisibile che pure vive di una fiamma flebile a tratti anche furiosa, ha quella valenza di purezza nel suo non accadere della lirica trobadorica e dell’amore cantato dai trovatori. Un amore per una dama il cui nome è spesso ignoto, una poesia del celar, che non deve mettere in pericolo la donna nobile e bellissima amata dal poeta, un amore vissuto da lontano, che non pretende un’unione carnale, ma nella sua distanza siderale forse è davvero puro perché non si aspetta nulla in cambio. Un amore spesso non corrisposto, un amore dolce e amaro (come in molte liriche di Guglielmo IX e anche di alcuni dei trovatori tardi) che non cessa di esistere e di essere cantato solo perché non ricambiato. Un servizio d’amore, come il cavaliere che giura al signore fedeltà assoluta e si prostra sotto al suo mantello. L’amore cantato da Isabella allora ha radici in questo senso profondissime, è un amore che non si consuma mai, che manca per anni e continua a mancare se quel solco non viene mai riempito, è un amore in cui il bruciare coincide con il durare e che dura proprio perché l’unione con l’altro non avviene mai, è sempre in procinto di accadere, è sempre possibile. L’altro allora abita in questa dimora con una coinquilina che pur essendo scalza trova nel canto l’espressione più alta del suo amore, forse allora questo amore è nobile proprio per la bellezza con cui si esprime, è un amore che su carta può davvero esistere e diventare più reale di quanto non sarebbe nel mondo. Solo con la poesia si compie alla fine una sorta di catarsi, di redenzione, solo con la poesia questo amore guarisce dalla sua stessa febbre e diventa eterno nel suo risuonare ancora dopo anni. Diventa un simbolo, uno specchio in cui riflettersi, a cui tornare. E allora la poesia ha compiuto davvero un miracolo, se alla fine tutti gli amori non corrisposti in questo libro possono trovare salvezza, una piccola pace, un canto in cui far echeggiare tutti gli appuntamenti mancati, tutti quegli “addii/ che durano di più a farli da soli”.


Io sono quella che di notte
ascolta tutti gli altri respirare,
ho bisogno di vegliare sulla casa
di girare frenetica su tutto…
Ma il mio momento è con i primi voli in fronte
dopo tutte le scale a piedi nudi
una ringhiera tra la notte e l’alba…
Ci siamo io, quell’uomo in bicicletta,
gli urli strani dell’estate e un po’ di freddo
a portare fino a qui la nostra ansia.

*

E dicono che se ci sei anche tu
sembro meno nervosa…
E’ che mi togli i nervi e te ne vai.
So solo che la curva del tuo collo
è il posto più perfetto che ci sia
per questa fronte
e se mi abbracci è come entrare in casa
sapendo che non ci si può restare.

*

Da piccola sbattevo le porte…
Quando sono diventata una che resta
seduta, che svuota le estati
a guardare la stanza dal balcone
per vedere se rientrando
neanche l’ultimo fantasma se n’è andato?
Ho un nuovo cane che dorme di fianco
ma tornano le stesse sere lunghe
le porte che sbattono addosso
senza la scossa accesa del fragore.
Bisogna avere la natura di chi resta
per saper tenere gli occhi sugli addii
che durano di più a farli da soli.

*

In ogni corsa, ogni impennata della vita
mi sei mancato e mi manchi per anni.
Nell’uscire verso il bar delle mattine
tutte le mattine uguali dell’inverno
cercarti, come un gioco per sperare…
Ad ogni cambio di stagione, ad ogni svolta
degli occhi e dell’età non ti ho più perso…
Ti tengo per l’estate, quando salgo
nei miei golfi di buio e quando torno
di notte verso casa e fino a quando
non passo il punto esatto in cui le ruote
incrociano le mie con le tue strade,
finché c’è ancora modo di incontrarti
non è finito il giorno.

*

Con te sono rimasta sempre al vento
presa a un suono larghissimo di foglie
dentro la pace accesa degli inverni.
Finisce l’anno e sta per nevicare,
sono finiti sempre e ancora siamo
due voci appese male per cercarci.
Ma in fondo che cos’è la giovinezza,
cosa doveva essere oltre a questa
tremenda corsa in ciao sotto la pioggia
al vento… verso casa di qualcuno.

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