a cura di Giovanna Frene
introduzione di Francesca Del Moro
da Taccuino della cura (Terra d’ulivi, 2021)
fotografia di Dino Ignani
Dolore e maniera su carta: è da questo verso, a mio avviso cruciale, che si potrebbe partire per tentare di offrire alcu-ne chiavi di lettura a un libro tanto complesso e incandescente. Dolore: parola che ricorre dodici volte nei versi, sorta di interlocutore privilegiato, compagno accarezzato nel raccoglimento baudelairiano, rifugio e specchio in cui guardarsi e riconoscersi. Dolore che è motore e al tempo stesso oggetto della cura che il libro persegue. Maniera: vocabolo che ritroviamo solo in due occorrenze antitetiche. La maniera, ovvero lo stile inconfondibile di Sonia Caporossi, che abbiamo imparato a conoscere fin dalla sua prima pubblicazione di poesia Erotomaculae, poi approfondito con i successivi Taccuino dell’Urlo e, sfrondato dai parossismi, in Taccuino della madre, di cui questa raccolta rappresenta l’ideale prosecuzione. Uno stile che la colloca nel solco del contemporaneo sperimentalismo, il quale riconosce un ruolo di primo piano agli aspetti formali della poesia, portando all’estremo il libero gioco con le possibilità e le trasgressioni della lingua.
dalla Prefazione
V
«{pneuma} signora piegati a novanta» fatti arco del suo sangue scorri intatta verso il guado dove l’argine è assetato dalla voglia di dolcezza dalle il soffio che resiste all’abbraccio senza fiato di un teorema di vaghezza nell’incanto del tuo collo brilla l’anima sopita come un abusivo laccio che le rende gleba la vita giù nel {fondo} dell’abisso nel languore incauto anela quando il {magma-mare} ingrossa l’onda gonfia del tuo seno e l’umidità increata cerca fra le gambe il solo puro flusso d’aletheia che sia stato mai compreso verso il senso del lignaggio che nobilita il suo {cuore} verso il frutto del linguaggio che riempie le sue ore di possibile pazzia nell’attesa e nell’umore lei rimane illetterata la {poesia} si fa φημί nel suo flusso di coscienza mentre ti ripete ancora «{pneuma} signora piegati a novanta» la sua anima ora canta e se proprio non novanta piegati alla sua passione col goniometro migliore fatti {carne} triangolare oculus che tutto vede digitus che tutto sente fatti {sangue}, fatti scorza che si possa frantumare sotto i denti di un demonio che si danna di turgore nel respiro l’effusione di un delirio secolare nel rimpianto più disteso dell’amplesso che ci abita senza scampo per dormire né rifugio da fuggire «{pneuma} signora, anelami spiritus {sanctus}, amami {terra} di miele, baciami {donna} mia {domina} omen»
X
il tuo peggior {nemico} buttalo in avanti chiamalo uomo e poi vedrai i giudici deriderlo il tuo peggior {nemico} tiralo in disparte {urlagli} negli orecchi e poi udrai i suoi figli chiamarti uomo
XII
pomeriggi passati a studiare come incenso sacrificato sui papiri annoiati di una schiava {libertà} e null’altro le è concesso sapere che la ratio logica di un peccato di superbia meglio allora scolorire quelle pagine di pretesa onniscienza come piogge d’umiltà su scabre pietre interiori ne risente l’emozione istinto atavico che sorride come un lito giù nell’isola di pasqua e bestemmia gesù cristo come in sfregio a san tommaso
XV
attrazione daltonica del vuoto pericardite in sussulto incastrata fra il flusso e il riflusso esangue nell’incavo claudicante del gradino sotteso, sottomesso, messo sotto nell’inciampo di un ahi! incancrenito e posto a fuoco rimestare la mestizia negli alleli dell’alluce alleviare il dolo del poeticum col ghiaccio «nell’addiaccio a freddo sulla soglia in cui ora giaccio» scarpinando col tacco e la punta abbracciando la croce a setaccio di una nuga, estetica presunta quando al secolare assioma del dolore fa eco solamente la retorica del sasso nella scarpa e il vecchio detto :: «il piede batte dove la langue duole ::»