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Spostamenti #43 | Sonia Caporossi

a cura di Giovanna Frene
introduzione di Francesca Del Moro
da Taccuino della cura (Terra d’ulivi, 2021)
fotografia di Dino Ignani


Dolore e maniera su carta: è da questo verso, a mio avviso cruciale, che si potrebbe partire per tentare di offrire alcu-ne chiavi di lettura a un libro tanto complesso e incandescente. Dolore: parola che ricorre dodici volte nei versi, sorta di interlocutore privilegiato, compagno accarezzato nel raccoglimento baudelairiano, rifugio e specchio in cui guardarsi e riconoscersi. Dolore che è motore e al tempo stesso oggetto della cura che il libro persegue. Maniera: vocabolo che ritroviamo solo in due occorrenze antitetiche. La maniera, ovvero lo stile inconfondibile di Sonia Caporossi, che abbiamo imparato a conoscere fin dalla sua prima pubblicazione di poesia Erotomaculae, poi approfondito con i successivi Taccuino dell’Urlo e, sfrondato dai parossismi, in Taccuino della madre, di cui questa raccolta rappresenta l’ideale prosecuzione. Uno stile che la colloca nel solco del contemporaneo sperimentalismo, il quale riconosce un ruolo di primo piano agli aspetti formali della poesia, portando all’estremo il libero gioco con le possibilità e le trasgressioni della lingua.

dalla Prefazione


V

«{pneuma} signora 
            piegati a novanta» 
fatti arco del suo sangue 
scorri intatta verso il guado 
             dove l’argine è assetato 
dalla voglia di dolcezza 
     dalle il soffio che resiste 
all’abbraccio senza fiato
di un teorema di vaghezza 
         nell’incanto del tuo collo 
         brilla l’anima sopita 
come un abusivo laccio 
      che le rende gleba la vita
giù nel {fondo} dell’abisso
nel languore incauto anela 
quando il {magma-mare} ingrossa 
l’onda gonfia del tuo seno
e l’umidità increata
cerca fra le gambe il solo 
                  puro flusso d’aletheia 
che sia stato mai compreso 
verso il senso del lignaggio 
che nobilita il suo {cuore} 
verso il frutto del linguaggio 
         che riempie le sue ore 
di possibile pazzia 
nell’attesa e nell’umore 
lei rimane illetterata 
la {poesia} si fa φημί 
nel suo flusso di coscienza
mentre ti ripete ancora
          «{pneuma} signora 
piegati a novanta»
la sua anima ora canta
e se proprio non novanta 
         piegati alla sua passione 
col goniometro migliore 
fatti {carne} triangolare 
          oculus che tutto vede 
                 digitus che tutto sente 
fatti {sangue}, fatti scorza 
che si possa frantumare 
sotto i denti di un demonio 
che si danna di turgore 
        nel respiro l’effusione 
di un delirio secolare
nel rimpianto più disteso 
      dell’amplesso che ci abita 
senza scampo per dormire 
    né rifugio da fuggire 
«{pneuma} signora, anelami 
spiritus {sanctus}, amami 
{terra} di miele, baciami 
{donna} mia {domina} 
                                             omen» 

X

il tuo peggior {nemico} 
buttalo in avanti 
             chiamalo uomo 
e poi vedrai i giudici 
deriderlo 

il tuo peggior {nemico}
tiralo in disparte 
{urlagli} negli orecchi 
    e poi udrai i suoi figli 
              chiamarti uomo 

XII

pomeriggi passati a studiare 
come incenso sacrificato 
sui papiri annoiati di una schiava {libertà} 
e null’altro le è concesso sapere
che la ratio logica di un peccato di superbia 

                    meglio allora scolorire 
quelle pagine di pretesa onniscienza 
come piogge d’umiltà su scabre pietre interiori 

ne risente l’emozione
                             istinto atavico 
che sorride come un lito giù nell’isola di pasqua 
                         e bestemmia gesù cristo 
come in sfregio a san tommaso 

XV

attrazione daltonica del vuoto 
pericardite in sussulto incastrata 
          fra il flusso e il riflusso
            esangue nell’incavo claudicante 
              del gradino sotteso, sottomesso, messo sotto 
nell’inciampo di un ahi! incancrenito e posto a fuoco 
rimestare la mestizia negli alleli dell’alluce 
     alleviare il dolo del poeticum col ghiaccio 
«nell’addiaccio a freddo sulla soglia in cui ora giaccio» 
scarpinando col tacco e la punta 
            abbracciando la croce a setaccio 
di una nuga, estetica presunta 
        quando al secolare assioma del dolore 
   fa eco solamente la retorica del sasso 
nella scarpa e il vecchio detto :: «il piede batte 
dove la langue duole ::» 
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