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Spostamenti #45 | Salvatore Ritrovato

a cura di Giovanna Frene
da La circonferenza della vita (Marcos y Marcos, 2022)


Il peccato immortale

«Pourquoi Dieu ne se montre-t-il pas? En êtes-vous dignes? “Oui”. Vous êtes bien présomptueux, et indigne par là. “Non”. Vous en êtes donc indigne»
(Blaise Pascal, Pensées, 802)

È un muro tutto intorno, amore, e lotte spaventose
mentre sorseggiamo un altro the.
Il globo formicola di tribù che si scannano ogni secondo
uomini crepano come cani tra rovine e lordure
bambini invocano la madre che non rivedranno.
Parliamo di altre epoche come di scatole da spostare in un ripostiglio.
Ci vissero uomini e non ne sappiamo nulla. Tutto finito.
Perché nacquero, perché morirono.
Ipotesi, congetture, e poco altro, quante vuote mattine.
Parliamo dei cristalli colorati che rallegrano la nostra giornata.
Cieli altissimi che rovesciano addosso cascate di zaffiri.
Lo smeraldo che varia di stagione in stagione, di luogo in luogo
di mare in mare, fino a questo nero di ossidiana
in cui si specchiano e ondeggiano i nostri sorrisi assorti.
E dov’è l’architetto, il regista sapiente, quel padre caché
che accetta le scommesse e silenziosamente
dietro una porta ascolta ogni sospiro, vivi e morti.
I filosofi si avvitano su ogni dubbio o perché
le madri singhiozzano sui loro figli perduti.
Ma lui, duro d’orecchie, paziente come nessuno di noi
saprebbe esserlo, fa ancora un gesto
alla finestra, poi a quelli che attendono in salotto:
«Aver creato il mondo, è questo… – dice –
questo, il mio peccato immortale». Ma non si pente.

Un po’ di solitudine

                                                                Lo conosco.
È uno di quelli che ogni mattina corre alla scrivania.
L’arma è fredda, ne accerta la sicura, la rigira.
È più di una pistola, una vecchia amicizia
coltivata con costanza e devozione:
aprire il fuoco, finire qui la partita? o resistere
senza fiatare, nella tana o nella fratta del salotto
senza muovere un dito?
Cecchino e bersaglio della propria vita.
E se fosse uno di quelli che fallisce la mira?
Uno incapace di tenere la mano ferma
trovare pace accanto al morto?
Non gli resterà che mettere la testa nella sabbia
e ricominciare come se ogni domani fosse successo ieri:
soste, epifanie, pendii dell’anima, sguardi biechi.
Il mondo intorno cesserà di piangere e danzare.
Lui comincerà a dimenticarlo, il mondo a dimenticarsene.
Un oblio generale, che toccherà più gli amanti degli amati.
Più il vivo di chi muore.
E se non fosse carica la pistola?
Per sognare è necessario un carcere dove resistere
anche se non ci si è mai stati.
E là imparare la pazienza, sopravvivere alla paura
se un po’ di solitudine insanguina l’aiuola.
Potrebbe essere un giorno come questo, la liberazione.

25-30 aprile 2021

Il pegno di una stagione

a Walter

Non importa quanto tempo resta ancora a salire
sull’albicocco ma che tu ci sia salito almeno una volta.
Se poi mi sporgo anch’io da quella cima vedrò come si sposta
la visione del tuo giardino di alberi da frutto
e l’acacia, la magnolia, il biancospino
ogni mandorlo fiorito in attesa che maturi una poesia
anche le siepi che si gonfiano di acerbi aromi, tutto
riposa in un ordine che annuncia un’evasione.
A volte, sulla carta, sembrano soltanto nomi
persi fra gli horti conclusi di un salotto
ma di riflesso ci senti dentro le antiche stagioni
(com’è vero che ciascuno di essi sa quando torna aprile).
Ma se uno vive e poi muore, in quale scorcio dell’anno
si adagerà il suo corpo e lascerà il frutto?
La terra è un ricordo, appartiene al sacro ‘sotto’
in un altrove che è anche un fuori
dove nessuno può raggiungerti né sostituirti.
E che frutto porteremo con noi? Cosa ci ha distolto
da questo pianeta che abiteremo anche da morti?
Laggiù porteremo foglie di carciofi
come pegno di una stagione di cui oggi mangiamo il cuore.

Loro

In memoria di Rafiki

“Tornano ogni tanto quei fantasmi di cui dicevano
i vecchi, mugugnando non so che avanzo di parentela:
non gli date confidenza, sentite che odore
di morto, i peli fini e corti, e un solletico se li tocchi.
Se ne vengono a gruppi da queste parti
hanno percorso le vie più strane, buttato giù piante
alzato tralicci e apparecchi vari, e lunghe ore
restano immobili a guardarci, mentre noi ci grattiamo.
Li guardo e mi chiedo perché non si grattano anche loro
che se ne fanno delle mani e di quegli stracci sporchi
che li coprono dall’aria tersa che respiriamo.
Meglio non avvicinarsi se hanno tanta paura:
meglio lasciarli silenziosi sotto il sole
che si impiglia nelle liane come in una giungla
di domande e dubbi senza risposte.
Li guardo nei loro volti (solerti alcuni, altri esitanti
cupi), quante cose nel cuore vedo nascoste.
Forse sono alieni sopravvissuti a una sciagura.
Non sanno che salgono e scendono dagli alberi
i terrestri, quando vogliono, con la pancia o sulla schiena
e le loro case come i sogni non hanno porte
perché la felicità è vivere ogni giorno, non una meta.
Non lo sanno, anzi si chiedono perché noi ci grattiamo.
No, hanno troppa paura per essere di questo pianeta.”

Buone notizie

«A thing of beauty is a joy for ever: / Its loveliness increases; it will never / Pass into nothingness; but still will keep / A bower quiet for us, and a sleep / Full of sweet dreams, and health, and quiet breathing.» (John Keats, Endymion)

Dici che è un poeta ma non vedi che ha il passo
di uno che si è perso camminando ogni giorno un poco
e non sa se alla fine del suo percorso senza meta
– dietro un cancello, una porta – eroico
troverà chi lo aspetta, e pensava fosse solo un gioco
scegliere un posto lungo la strada, scattare una foto
della valle velata la mattina da una foschia leggera
e sfogliando un taccuino appuntare in fretta.
E chi sa se indugiando in una radura o dietro una macchia
come alla ricerca di un giardino favoloso
tra colori e odori di antiche piante, o contemplando
ogni grappolo di rose ammaliante, sulla soglia
dove già altri attendono che qualcuno entri
all’ombra delle volte che si dischiudono
in una raggiera a botte che l’universo contiene
(ma non questo sole, non questa luna)
chi sa se busserà dove nessuno lo aspetta
bruciando ogni via di fuga come un angelo muto
che riflette fra sé – ormai è sera – cos’è mai una poesia.
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