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Parole contro | Fabio Barissano

Proponiamo ai lettori il testo presentato da Fabio Barissano ai laboratori di Parole Contro, tenuti a Napoli tra novembre 2022 e febbraio 2023.


Questo mio intervento è incentrato sul linguaggio nel tempo di guerra. È sempre così: laddove il vortice è più intenso occorre aggrapparsi a un segno. Se da un lato il poeta ancora scrive dal fronte dei bombardamenti premendo sulla lingua e sulla scrittura affinché non cessino il loro ufficio di testimoniare, dall’altro molte sue affermazioni parlano di una quotidianità che, per quanto ferita, ha radici nella concretezza. Sono i due lati del poeta martyros: il testimone degli eventi che compie il balzo
miracoloso nella lingua e l’esperienza di chi resta, “della razza di chi rimane a terra”.
Nella martoriata Ucraina, i poeti ci parlano dalle nebbie alzando una voce ferma: “Parla sinceramente, onestamente; una parola è quasi uguale a un’azione” dice Dmytro Drozdovsky da Kiev, o riportando i recapiti sui corpi di bambini destinati alla morte: “Per le strade delle città e dei villaggi ucraini bombardati, i corpi dei bambini giacciono con i numeri di telefono sulla schiena scritti dalle madri in modo che possano essere identificati in caso di morte…” scrive Ihor Pavlyuk da Lvov.
Questo sconcerta e ci lascia pensare: come una lingua può farsi strumento di dialogo con i lontani o con i sopravvissuti, parlata da chi è qui ed ora, ma per quanto tempo ancora? Essa effimera si oppone alle schegge pesanti delle bombe, il suo alfabeto è la schiera invisibile che si oppone alla greve minaccia militare.
Così la poesia è il Giano bifronte della cultura che si erge sopra le nebbie e il filo spinato, cerniera tra Oriente e Occidente. Qui abitano i testimoni (testis come tertium: colui che guarda è contemporaneamente dentro e fuori gli eventi) usando la penna più forte di qualsiasi arma: “Dapprima volevo iscrivermi alla Legione Straniera come combattente ma ho avuto abbastanza buon senso per capire che otterrei di più con la penna” nelle parole di Zarina Zabrisky da Odessa.
Ma quanti altri vissero questa dicotomia: lasciare un segno per non cedere alla fiumana degli eventi: in Italia Ungaretti creò addirittura un nuovo stile – fulmineo nei versicoli – generato dal fischiare delle pallottole e dai pochi mezzi di un soldato in trincea. E poi i poeti del fronte orientale: Achmatova, Brodskij, Mandel’štam: tutti cercarono una casa ai propri versi, tra bombardamenti e maledizioni politiche, spesso affidandoli alla tutela degli amici o alla memoria (è il caso di Nadežda Khazina, moglie di
Mandel’štam, che salvò le poesie del marito imparandole a memoria e riscrivendole).
Questa è il destino del discorso in guerra: coglie l’attimo e, pure tra le macerie e il lampo violento di un razzo, si scava un posto per respirare. Noi occidentali, abituati al lusso che la pace politica ci dona, non sappiamo credere che la poesia viva in tanto disgregarsi delle forme, che non trovi nella sua perfezione una giusta chiusura. Ma ciò è l’ambiguità della parola in guerra, il kairòs per cui davvero si combatte: lasciare un segno che deve sopravvivere, così remoto da essere imminente, così vicino da essere
immortale.

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