Gabriele Galloni | Tradizione e talento individuale

di Giuseppe Martella
fotografia di Arianna Vartolo


Nel corso della sua breve vita e fino ad oggi, a poco più di due anni dalla sua scomparsa, si è discusso di Gabriele Galloni come di un erede della tradizione lirica, intesa nella sua accezione più pura, cioè come espressione immediata di sentimenti ed emozioni in uno stile nel contempo semplice e originale: lo si fa specialmente con riferimento alla scuola poetica romana degli anni 70 e 80 del Novecento, cioè alla generazione dei suoi padri, e che egli aveva certamente esplorata e assimilata. Si tratterebbe dunque di una filiazione piuttosto evidente, arricchita certo poi da una miriade di interessi, da un ampio ventaglio di letture ed esperienze interdisciplinari, cui la curiosità e il fiuto critico in lui innati lo avrebbero spinto: tutto ciò è ampiamente documentato e risulta pertanto incontrovertibile. Ma definirlo erede della tradizione lirica senza ulteriori qualificazioni, se non i dati di una scheda biobibliografica, non spiega in che cosa consisterebbe allora questa sua originalità e il sottile fascino che ha esercitato sui lettori nell’arco della sua breve carriera. Si è tirato allora in ballo il suo talento per l’autopromozione sui social media, per l’accorta gestione della propria immagine di blogger competente e informato, in grado di fungere da coscienza critica garbata e intransigente della poesia contemporanea. In brevissimo tempo infatti il blog da lui gestito, insieme all’ancor ancora più giovane e altrettanto talentuoso amico Mattia Tarantino, era diventato uno dei punti di riferimento per la comunità dei poeti sui social media. In verità si sono spesso messi a contrasto questi due aspetti della sua personalità: quello del lirico sapiente e raffinato e l’altro del promoter assiduo e astuto, capace di ricorrere anche a colpi di teatro o a scherzi di dubbio gusto (vedi il caso di Olimpia Buon Pastore) pur di attirare l’attenzione e costruire il mito dell’artista giovane. Ma questi due aspetti apparentemente antitetici costituiscono due facce della stessa medaglia, poiché il culto dell’autore e quello della sua opera sono di fatto divenuti inscindibili almeno da una ventina d’anni a questa parte. La grandissima maggioranza dei poeti, anche assai più vecchi di lui, agiscono infatti parallelamente sui due versanti, cioè pubblicano opere in versi e pubblicizzano, da sé o per interposta persona, la propria immagine sui social e comunque sul web. Perché, a dire il vero, chi non appare in rete oggi non esiste. La differenza è che la maggior parte dei poeti viventi non è abbastanza consapevole del cambio di paradigma intervenuto ormai da almeno una trentina di anni, cioè dalla transizione dallo spazio letterario al cyberspazio, sicché molti continuano a dibattere per esempio sui confini tra i generi letterari o magari sull’intertestualità e l’interdisciplinarietà delle loro pratiche artistiche ma pochi si rendono davvero conto che la propria opera, a qualsiasi genere appartenga, è in realtà intermediale e rimediata, nel senso che già al momento della pubblicazione e poi nel corso della sua ricezione è passata al vaglio di diversi media: di ciò fa fede il modo di operare degli scrittori, siano essi lirici o sperimentali, tradizionali o oltranzisti, che spesso dichiarano di vergare in prima istanza i propri testi su carta per poi passarli al computer e lì rivederli e assemblarli, con spostamenti accorti di blocchi di lessie, resi possibili dal taglia e cuci del word processing, che va inteso come un vero e proprio “processo alla parola” e alla scrittura così come le avevamo finora intese. Al contrario, Gabriele Galloni, millennial doc, era invece perfettamente consapevole di tutto ciò, sia in virtù del suo acume che del suo curriculum scolastico, nonché delle altre svariate competenze acquisite nel corso del suo breve e intenso tirocinio. Testimoniano in questo senso le interviste da lui rilasciate[1], che definiscono già la sua poetica come un lavoro metodico di prelievo, ritocco e montaggio di immagini che gli erano balenate in mente o anche talvolta di versi perfetti che gli risuonavano nella memoria e che avrebbero poi costituito le cellule di una poesia o addirittura di una silloge. Perciò il suo rapporto con la tradizione della lirica, nostrana ed europea, va inteso alla luce di queste considerazioni, come ho cercato di fare più o meno esplicitamente in diversi miei interventi nei mesi immediatamente successivi alla sua morte improvvisa[2]. Ma lì mi occupavo piuttosto della specificità e della tenuta delle singole raccolte, mentre adesso intendo proprio soffermarmi sul rapporto fra tradizione e talento individuale ai giorni nostri, riprendendo ovviamente il titolo di un breve quanto famoso saggio che segnò la poetica delle avanguardie artistiche europee del secolo scorso. In esso T.S. Eliot enunciava alcuni principi memorabili del modernismo letterario: ogni poeta che sia davvero tale non deve esprimere soltanto le proprie esperienze ma anche quelle delle generazioni che lo hanno preceduto, sicché egli risulta tanto più originale e significativo quanto più nei suoi versi risuonano quelli dei poeti morti; ciò significa possedere il senso storico che non è soltanto quello della passatezza del passato ma anche invece quello della sua presenza, e ciò comporta la resa della propria personalità all’opera da compiere. Perché in verità egli non ha tanto una personalità da esprimere quanto un medium in cui in cui operare. Egli deve fungere per così dire da catalizzatore di una reazione alchemica che fa nascere un elemento nuovo dalla fusione di due altri distinti, rimanendo però nel contempo esso stesso immutato alla fine del processo: ciò perché le emozioni del poeta e quelle strutturali della sua opera sono due cose distinte e separate; egli deve dunque sacrificare la propria personalità ovvero metterla in parentesi, epochizzandola, per poter esprimere la temperie spirituale del proprio tempo e divenirne così il veggente e il testimone. Ovviamente questa è solo una sintesi sommaria di un testo, tanto denso ed elegante quanto talora problematico, che ci serve per affermare anzitutto quanto esso sia rappresentativo della propria epoca come anche irrimediabilmente datato e impraticabile ai giorni nostri: lo è anzitutto in un punto chiave, quello che riguarda proprio l’opposizione netta tra personalità e medium, nonché tra la promozione dell’autore e la produzione della propria opera nell’attuale società dello spettacolo e dell’informazione di massa, della s/composizione digitale e della fruizione intermediale dei testi. La visione del mondo delle prestigiose avanguardie artistiche del Novecento discendeva infatti anzitutto dalla transizione dall’universo newtoniano a quello relativistico e quantistico nella fisica atomica; la nostra invece discende dal cambio di paradigma da una tradizione eminentemente chirografica e tipografica a una intermediale, cioè dallo spazio dello scrivere in modo lineare al ciberspazio digitale dove si compone e spesso anche si legge per salti, per taglia e cuci, prelievi, riusi e montaggi di ciò che abbiamo a disposizione nella banca dati del nostro personal computer e tramite le sue connessioni alla rete. Dal passaggio da uno spazio eminentemente letterario a uno irrevocabilmente intermediale, dove i prodotti finiti, anche quando si presentano nella consueta e rassicurante forma del libro, sono passati attraverso numerose rimediazioni che non hanno affatto lasciati intatti i messaggi trasmessi, perché componendo con i nuovi media si pensa e si crea anche in modo diverso. Poiché ogni genere di poesia, come è stato enunciato una volta per tutte nello Ione e nel Fedro platonici, consiste nella fusione spesso inconsapevole da parte del poeta, di sentimento e forma, di abbandono e controllo, secondo una data tecnologia disponibile[3]. Ci troviamo oggi in una situazione significativamente speculare rispetto a quella delle prime decadi del Novecento: lì si trattava della fissione dell’atomo nelle sue particelle elementari e delle controintuitive leggi statistiche che regolano gli scambi quantici; qui si tratta della fissione dei fonemi e dei grafemi del linguaggio verbale nei loro bits di ordine numerico, quanto a dire che il linguaggio verbale è sotteso dalla prepotenza del suo sostrato numerico e pronto a deformarsi di conseguenza in innumerevoli, inedite forme avvenire. Anche là dove tutto sembra immoto e calmo, come nello specchio d’acqua dove Narciso si ferma a contemplare la propria immagine fino a rimanerne attratto al punto da sprofondarci dentro, anche là si scopre invece, al di là di ogni effetto espressionistico, che lo stagno è un effetto di codice, una simulazione virtuale[4]: ecco, Gabriele Galloni aveva colto in pieno il passaggio dall’epoca della rappresentazione a quella della simulazione e di questa consapevolezza aveva fatto la base del suo dialogo con i propri predecessori, su di essa aveva forgiato il proprio senso storico, ossia il suo saper cogliere ciò che ancora vive del passato e chiede di essere espresso in altre spoglie, la sua peculiare versione del nesso sempre mutevole fra tradizione e talento individuale.

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Come si è detto, quella di Galloni è una poetica del ritaglio e del montaggio, che egli riassume nel concetto di “slittamento”, a partire dalla sua prima silloge che porta proprio questo titolo e che, oltre a costituire il repertorio di temi e figure che svilupperà nelle raccolte successive, reca al suo interno, nella breve sezione centrale, Sakim, una articolata dichiarazione di tale poetica, che si concentra specialmente nella lirica intitolata appunto “Slittamento”: “I limiti nei quali puoi tagliare vanno/ dalla trachea fino alla cima del/ polmone quando è in espirazione.” (43) Limiti del ritaglio, incisione biopsichica, del respiro dell’io-poetico. Ma l’intera sezione è poi un manuale di questa insta-grammatica del ritaglio e della “scansione ininterrotta”, a colpo d’occhio e mano ferma, prelevando tranches de vie in attesa di montaggio, con ritocchi leggeri ed esperti, in una incisione bio/grafica dove i limiti del ritaglio decidono del respiro dell’io poetico. (43) Dove ne va dell’integrità del corpo-teatro e della carne del mondo, perché “se durante il lavoro la trachea/ o l’esofago laceri per sbaglio,/ la carne è da buttare tutta intera.” (44)

Lo “slittamento” è dunque la chiave della sua poetica. Tra continuità e salto, tra metonimia e metafora, c’è una terza via: lo scivolamento continuo delle immagini su una pellicola traslucida, sulla carne del mondo esposto al sole guasto e impietoso dei nostri giorni, come quando in una allucinata vacanza estiva gli adolescenti, “I ragazzi di Focene” scendono in spiaggia o meglio vengono gettati nell’aperto, seminudi e semicoscienti. Nel seducente dondolio di un’onda lunga che promette l’infinità del tempo, l’onnipotenza dei desideri, ma che poi alla fine della giornata si spegne e si asciuga su una parete bianca che non ne conserva traccia: in questa nostra società liquida, di cuspidi e catastrofi, che ospita dimore vacanti e imprevedibili spazi di violenza.

Derive dell’esserci, slittamenti del suo senso nella nuda vita, in piena luce, sotto gli occhi di tutti (come in un social): in uno scialo di luce in cui ogni profilo si sfuoca, come in un quadro di Turner, e non c’è più prospettiva che tenga, non c’è distanza salvifica, eccetto una caustica mortifera ironia che cicatrizza balletti di fantasmi in un Grand Guignol metafisico, in uno stupefatto Après midi d’un Faune scandito sugli scatti di un’Arancia meccanica.

Perché la dimensione dominante qui è quella dell’osceno (anche quando travestito da elegia), cioè dell’eccessiva vicinanza fra lo sguardo e il suo oggetto, della mancanza di una sceneggiatura plausibile per il film della vita, che si risolve pertanto in fotogrammi sparpagliati e in aborti di montaggio (out takes), in una revisione continua di ciò che già sempre si è e si sa che sarà visto.

Uno sprofondamento vertiginoso del progetto esistenziale in una anamnesi abnorme: precocemente colta, alienata e traumatica, dove l’eccesso di arguzia funge da pharmakon (rimedio-veleno) di una sofferenza psichica che ha un risvolto antropologico in questa società delle reti, dove ogni riflesso della mente o conato di azione si perde nella cattiva infinità delle rifrazioni, e dove lo stesso principio di individuazione appare precluso dalla processione di simulacri che accerchiano il fanciullo divino, portando maschere bianche come la sua e coltelli per il sacrificio.

Del bianco della maschera e della lama del coltello è fatta questa poesia, balletto e incisione, ritaglio e prelievo di vissuti sulla propria pelle, ma senza pathos, quasi per un esperimento biologico condotto su sé stessa da una mente troppo acuta e surriscaldata, esemplare di un mondo e di una specie destinati all’incenerimento (burn out), a meno di un miracolo. Quell’orizzonte del miracolo su cui ogni giovane poeta di talento tenta di gettare uno sguardo per tradurlo in parole. Galloni lo fa con irrisoria facilità e sfrontatezza fin da questa sua prima fondamentale raccolta, che costituisce fra l’altro il repertorio tematico di tutto ciò che seguirà. Lo fa con uno stile in cui la cadenza sincopata del verso aderisce all’immagine come il suo negativo, come una calzamaglia sottile aderisce al volto dell’assassino, senza grinze né residui, come velo del sacrificio, con la leggerezza ubriaca del volo della falena che va a incenerirsi nel suo punto luce.

Quando, alla fine di In che luce cadranno, leggiamo che “la musica dei morti è il contrappunto/ dei passi sulla terra” (46), veniamo subito ricondotti al suo inizio, dove i morti vengono definiti come “l’indicibile/ della conversazione” (5), e così il cerchio si chiude, o meglio si riapre nella spirale di un infinito rimando che fa tutt’uno con la nostra storicità immanente, che in questa stralunata eccentrica plaquette costituisce l’equivalente del senso storico sotteso all’apparente disimpegno sociale e all’atemporalità onirica di questa come delle altre opere di Gabriele Galloni. Senso storico da intendersi, proprio nel senso eliotiano (benché ovviamente adattato alla temperie del nostro presente) cui abbiamo prima accennato, come ciò che “implica non soltanto la percezione della qualità dell’essere ‘passato’ del passato, ma la percezione della sua ‘presenza’; quello che costringe un autore a scrivere non solo per la generazione cui appartiene e di cui si fa portavoce, ma anche con la consapevolezza che l’intera letteratura mondiale a partire da Omero (e in essa tutta la letteratura del proprio paese) ha una esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo. Questo senso storico – che è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale e del temporale insieme – è ciò che rende uno scrittore ‘tradizionale’. Ed è allo stesso tempo ciò che lo rende uno scrittore più acutamente consapevole della sua posizione nel tempo, della sua propria contemporaneità.”[5] E’ proprio tale consapevolezza, tutta implicita nel processo di ritaglio, riuso e montaggio che contraddistingue l’intera opera di Gabriele Galloni, che ne caratterizza il modo precipuo in cui egli può dirsi “erede della tradizione lirica”, (a partire da ciò che gli era più prossimo, ossia dalla scuola romana degli anni Settanta e Ottanta del Novecento), che egli prende in controcanto e controtempo, sin dalle sue forme più semplici e usurate, spostandola di peso dallo spazio letterario al ciberspazio in cui tutti ora viviamo, e infondendole così un nuovo valore di posizione da cui riverbera il senso fresco e inaugurale, nonché l’effetto spiazzante e ancora parzialmente incompreso dei suoi propri versi. Quando a sua volta Mattia Tarantino impernia L’Età dell’Uva sul dialogo accorato e parodico con l’amico scomparso, dà inizio a uno scambio di consegne che impone un adeguato riscontro da parte del lettore. Perché in questo dialogo fantasmatico fra due giovani poeti amici, prende corpo uno snodo che si rivelerà essenziale per comprendere “la svolta del respiro” (Celan) della poesia italiana del XXI secolo.


Note

[1] Vedi per esempio quella rilasciata a Gabriele Paoletti su http://www.laboratoripoesia.it/gabriele-galloni/
[2] Si vedano i miei articoli pubblicati su Poesiablograinews dal 3.12.2020 al 1.3.2021e ora conservati nell’archivio Galloni di Inverso – Giornale di poesia.
[3] Platone si occupava allora del passaggio dall’oralità alla scrittura.
[4] “la pozzanghera/ mandò in frantumi il cielo. E tra la guazza/ ti cadeva qualcosa; in tutta fretta/  lo raccoglievi dicevi non è niente”: Slittamenti, p.54.
[5] Traduzione di Giulia Bordignon disponibile in rete: http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=444, Con qualche lieve aggiustamento per conformarsi al mio discorso.

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