di Gloria Riggio
Male nostro che sei nei cuori
siamo come la terra senza lumi
Nedda Falzolgher, Padre nostro dei disperati
Vincenzo Luciano pronuncia la sola parola autentica che dal mare in risacca sulla riva di Steccato di Cutro si sia sinora levata, e la sua voce ha un suono che si unisce ai sibili del vento, al tuono acuto delle onde che s’infrangono sull’arenile, a ciò che la dignità lascia di sé quando cammina sola e intera sulla rena e il mare se ne prende indietro le impronte.
Lo stato italiano agisce nella sua misura più degna – l’unica – dentro le mani dei pescatori meridionali.
E si rivela la scucitura che procede a separare i lembi tessili di una nazione le cui politiche da anni gerarchizzano il male. La sensibilità al dolore si attenua all’aumentare della distanza dal punto in cui esso si manifesta, che resta puntualmente nudo e scoperto: distanza direttamente proporzionale al punto che lo origina se è vero che l’operazione d’intervento del 25 febbraio scorso relativa all’imbarcazione proveniente dalla Turchia è sempre stata un’operazione di polizia e mai di soccorso; se è vero che dagli scanni parlamentari ci si concedono valutazioni di sorta sul viaggio in mare ponendolo in essere come nel discutere una libera scelta; se è vero che l’ingenuità con cui si associano i propri privilegi ai sistemi di pensiero attraverso i quali chiunque e in qualunque parte del mondo può e addirittura dovrebbe scegliere tradisce un’inconsapevolezza tronfia e ottusa, un pensiero monolitico posto consapevolmente a servizio di una realtà complessa.

O, al contrario, se è vero che il vescovo e l’imam di Crotone hanno sfilato in processione ai lati di una croce costruita col legno del caicco affondato nella tempesta e restituito alla terraferma dal mare grosso solo nel suo scheletro divelto; se è vero che le madri naufraghe superstiti hanno pianto i propri figli dagli spalti del palazzetto dello sport adibito a camera ardente accanto alle madri calabresi presenti, sorelle potenziali e contingenti; se è vero che la sola necessità di adibire un intero campo da sport a camera ardente basta a se stessa per sapere che nessuna società umana abbia mai ritenuto debbano esisterne di pronte ad ospitare una tale quantità di morti, o che sia plausibile esista un coro da stadio cadenzato a singhiozzi, un pianto che scandisca il lutto siglando di bara in bara la lista delle proprie ragioni.
Chiedono di scrivere qualcosa su ciò che è accaduto a largo della costa di Crotone. La polemica monta, le travi del palco sopra il quale ci affanniamo a raccontarci un senso cigolano e si disfano in un cumulo di ossa: ancora una volta non le nostre, ancora una volta anche le nostre.
Le uniche parole che nominano la verità e non potranno smettere – il loro flogisto è la morte, il loro flogisto è la vita – sono nel racconto di Vincenzo Luciano: le mettiamo in versi perché nella loro forza c’è tutto ciò che la poesia (dunque l’uomo, dunque noi) ha il potere, la forza, il coraggio di fare e non fa: che disorientino, commuovano, ci muovano, mortifichino, indichino, continuino a dire la sola cosa in fondo vera, questa disperazione innominabile e intera, questa inamovibile fede.

Steccato di Cutro, Crotone, febbraio 2023 – Vincenzo Luciano
I
Ci ha chiamato quest’altro pescatore che è un vecchietto, siccome ci conosceva ci ha chiamati prima a noi, dice: ragazzi, guarda che qui c’è una barca che sta andando giù a fondo, si sentono delle urla, ci sono dei morti sulla spiaggia, se venite... e noi siamo scappati La barca ancora non era rotta, però a mano a mano che noi raccoglievamo i morti la barca si stava rompendo, si rompeva tutta a pezzi perché c’erano le onde molto grandi Siamo arrivati con la Gip, quando siamo arrivati lì abbiamo trovato dieci, dieci morti, dopo a mano a mano che si faceva giorno ne abbiamo trovato sempre di più sempre di più dopo abbiamo chiamato la Guardia Costiera e c’ha dato una mano Soprattutto bambini io ho preso anche un bambino di otto mesi
II
Ho preso un bambino, mi so’ infilato in acqua vestito perché pensavo ch’era vivo, no? Era un bambino di due tre anni Quando l’ho tirato fuori aveva ancora gli occhi aperti, e ho detto: forse io questo lo salvo ma quando so' uscito fuori gli usciva la schiuma dalla bocca; gli ho chiuso gli occhi e, e quella è la rabbia mia, che non sono riuscito a salvarne neanche uno Quando io chiudo gli occhi ancora/ e, quando chiudo gli occhi mi mi/ mi vengono/ mi viene in mente sempre quel bambino Magari se ero arrivato un minuto prima venti secondi prima non so quanto ma potevo salvarlo, forse

III
Lui mi teneva la luce e io prendevo i morti sulla sulla battigia, li portavo fuori perché sennò la risacca se li prendeva di nuovo, e dopo facevo viceversa, io tenevo il telefonino e lui ti tirava i morti fuori ma non si capiva niente perché c’erano delle urla, le mamme volevano sapere se erano i suoi figli ci tiravano, gridavano Io non ero pronto a questa cosa, ero ero andato un po’ in panico ma più si faceva giorno e vedevamo sempre più morti
IV
Non sono andato a casa subito sono andato a casa… mezzogiorno mia moglie mi chiamava: Vincenzo ch’è successo, per telefono… chiudi il telefono, dopo ti racconto Quando so’ arrivato a casa, mia moglie mi ha visto stravolto, mi ha m’ha detto: te l’avevo detto di non andare ch’era qualcosa di grave, e Son tre giorni che non riesco a dormire non mangio, non dormo, e sono un po’ stanco, un po’ deluso