Elettra sul vialetto delle azalee, Nel paese di Mida e Lettera d’amore sono proposte nelle traduzioni di Giona Tuccini (Soglie, anno XVII n°3);
Donna sterile è stata tradotta da Anna Ravano (Tutte le poesie, Mondadori, 2013);
Sul declino degli oracoli è stata tradotta da Piera Mattei (La luna e il tasso, Via col Vento, 2010)
Elettra sul vialetto delle azalee
Il giorno che moristi andai nella terra, nell’ibernacolo senza luce dove le api, a strisce nere e oro, dormono finché cessa la bufera come pietre ieratiche, e il terreno è duro. Quel letargo andò bene per vent’anni – come se tu non ci fossi mai stato, come se io fossi venuta al mondo, dal ventre di mia madre, ad opera di un dio: sul suo letto largo c’era la macchia del divino. Non avevo nulla a che vedere con la colpa o altro quando mi raggomitolavo sotto il cuore di mia madre. Piccola come una bambola nel mio vestitino d’innocenza me ne stavo sdraiata a sognare la tua epopea, immagine per immagine. Non uno che morisse o sfiorisse su quella scena. Tutto avveniva in una bianchezza durevole. Il giorno che mi svegliai, mi svegliai a Churchyard Hill. Trovai il tuo nome, le tue ossa e tutto nelle liste di una necropoli gremita, la tua pietra maculata di sghimbescio presso una ringhiera. In questo ricovero, in questo ospizio, dove i morti si ammucchiano piede a piede, testa a testa, non un fiore a rompere il terreno. Questo è il vialetto delle azalee. Un campo di bardana si apre a sud. Sopra di te sei piedi di sassolini gialli. La salvia rossa non si muove nella vaschetta di sempreverdi di plastica posti davanti alla lapide vicina alla tua, e neppure marcisce, per quanto le piogge stingano un colore di sangue: i petali finti gocciolano, gocciolano rosso. C’è un altro rosso a incomodarmi: il giorno che la tua vela rilasciata bevve il respiro di mia sorella il mare piatto si fece di porpora come l’atroce panno che mia madre aprì al tuo ultimo ritorno. Prendo a nolo i paramenti di una tragedia antica. La verità è che in una fine d’ottobre, al mio primo vagito, uno scorpione si punse la testa, brutto segno; mia madre ti sognò riverso nel mare. Gli attori di pietra sostano, si riposano per riprender fiato. Ho dato tutto il mio amore, e tu sei morto. Fu la cancrena a mangiarti fino all’osso mi disse la mamma; moristi come uno qualunque. Come arriverò a far mio questo pensiero? Sono lo spettro di un suicida senza onore, il mio rasoio azzurro mi s’arrugginisce in gola. Oh, perdona colei che batte alla tua porta a domandarti perdono, padre – la tua cagnetta fedele, figlia e amica. E stato il mio amore a dare la morte a entrambi.
Nel paese di Mida
Prati di polvere d’oro. Le correnti d’argento del Connecticut si sparpagliano e s’insinuano in dolci crespe sotto le fattorie sulla riva dove imbianca la segale. Tutto è liscio fino a un luccicare piatto nel meriggio sulfureo. Con il languore degli idoli ci muoviamo sotto la larga campana di vetro del cielo e intagliamo brevi le forme dei corpi in un campo di stoppie e mazze dorate come su una foglia d’oro. Forse è il paradiso, questa statica pienezza: le mele indorano sul ramo, cardellini, pesci dorati, un soriano biondo fermo su un arazzo gigante – e innamorati affettuosi, come colombi. Ma ora sull’acqua sfrecciano gli sciatori, a ginocchia tese. A un capo dei cavi invisibili squarciano il velo verde del fiume: lo specchio trema e si rompe. Volteggiano come i pagliacci di un circo. E così ci ritroviamo, pur volendo fermarci, su questa sponda d’ambra dove l’erba discolora. Il contadino pensa già al raccolto, agosto cede il suo tocco di Mida e il vento denuda un paesaggio più pietroso.
Donna sterile
Vuota, rimando l’eco di ogni minimo passo, museo senza statue, grandioso di colonne, porticati, rotonde. Nel mio cortile una fontana balza e riaffonda dentro di sé, un cuore monacale, cieca al mondo. Gigli di marmo esalano il loro pallore come profumo. Mi immagino con un grande pubblico, madre di una bianca Nike e di molti Apolli dagli occhi vuoti. Invece i morti feriscono con loro attenzioni, e non Può accadere nulla. La luna mi posa una mano sulla fronte, senza espressione e muta come un’infermiera.
Lettera d’amore
Non è facile spiegare il cambiamento che operasti. Se adesso sono viva, allora ero morta benché, come un sasso, non me ne preoccupassi e me ne stessi dove mi trovavo d’abitudine. Non ti limitasti a spingermi con il piede, no – neanche lasciasti che il mio piccolo occhio nudo si rivolgesse ancora al cielo, senza speranza, certo, di capire le stelle o l’azzurro. Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente camuffato da sasso nero tra sassi neri nello iato bianco dell’inverno – come i miei confinanti, senza cavare alcun piacere dai milioni di guance perfettamente scalpellate che ad ogni istante s’appoggiavano per sciogliere la mia guancia di basalto. Si cambiavano in lacrime, angeli in pianto su nature smorte, ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano. Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio. Ed io seguitavo a dormire come un dito piegato. La prima cosa che vidi fu l’aria pura e le gocce catturate che in guazza si levavano limpide come spiriti. Attorno tanti sassi giacevano ottusi, senza espressione. Io guardavo e non capivo. Brillavo come scaglie di mica e mi spiegai per rovesciarmi fuori come un fluido tra le zampe di un uccello e i gambi delle piante. Non mi sbagliai. Ti riconobbi immediatamente. Albero e sasso risplendevano, senz’ombra. La mia piccola lunghezza come un vetro diventò lucente. Presi a fiorire come un ramo di marzo: un braccio e una gamba, un braccio, una gamba. Da sasso a nuvola, e così io in salita verso l’alto. Ora assomiglio a una specie di dio e galleggio nell’aria nella mia veste d’anima pura come una lastra di ghiaccio. E un dono.
Sul declino degli oracoli
Accanto a due reggilibri in bronzo a forma di veliero mio padre conservava una conchiglia; ascoltavo agitarsi i suoi denti freddi col suono di quell’ambiguo mare di cui il vecchio Böcklin sentiva il vuoto quando da una conchiglia ascoltava il mare che non poteva udire. Lui sapeva cosa diceva al suo orecchio interiore la conchiglia, non lo sa il contadino. Mio padre morì, lasciò dietro di sé i libri, la conchiglia. I libri bruciarono, la conchiglia la riprese il mare, ma io, io conservo le voci che lui ripose nel mio orecchio, nei miei occhi la vista delle onde azzurre che non vedevo, che il fantasma di Böcklin rimpiange. I contadini fanno festa e si moltiplicano. Non vedo un cigno spavaldo né una stella lucente a eclissare un bue trafitto, stemmi di una più schietta era, ma tre uomini che entrano in giardino, e salgono le scale. Il loro aspetto di pettegoli perdigiorno invade l’occhio claustrale, come pagine di un volgare fumetto, e verso l’accadimento di questo evento ora gira la terra. Tra mezz’ora scenderò la scala consumata e incontrerò quei tre che salgono. Un futuro che vale meno del presente, meno del passato. È senza valore quella vista per occhi divenuti deboli che pure una volta videro di lontano cadere le torri di Troia, il pericolo irrompere dal nord.