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Chiara Araldi | Mondine

video, voce e introduzione a cura di Gloria Riggio


Ad alta voce

n°6


1 maggio 2023

Quanto di puntuale si possa tentare di dire sul primo maggio, sulle contraddizioni che mette in luce in un paese nato più di un secolo fa dentro le unghie rotte degli operai e sotto quelle sporche dei contadini, che oggi ne festeggia i diritti e che, cionondimeno, nel recente 2021 conta centinaia di migliaia di vittime dell’agromafia è presente in “Mondine” dell’autrice e poeta performativa Chiara Araldi.

Quanto di complesso si possa tentare di restituire sul procedere contemporaneo dell’ingiustizia di classe che fa dello sfruttamento del lavoro legalizzato terreno fertile per il divario sociale e quanto, cionondimeno, resti indiscussa la portata liberatrice del lavoro come strumento di classe e soprattutto di categoria, è presente in questa poesia, e nella voce dell’autrice che è solita interpretarla nel mondo. Quando questo accade, Chiara Araldi, fa precedere al testo l’intonazione di un canto di contestazione nato nei primi anni del secolo scorso dalle mondine, i cui primi versi recitano: se otto ore vi sembran poche/ provate voi a lavorare/ e troverete la differenza/ tra lavorare e comandar/.

Ma già tutte queste parole nascondono il cuore della storia confondendone l’esattezza e la verità. Dunque approssimarsi ad essa attraverso l’ascolto delle mani che l’hanno custodita, delle voci antiche e del loro roco richiamo ostinato, della loro dignità, del passo dentro cui essa procede facendosi voce, collettività, discussione, lotta, canto, contestazione, progetto di legge, diritto.

Se ci è concesso l’accesso a una feritoia sulla storia, è dentro i versi di chi l’ha fissata in una perla d’ambra, al riparo dal tempo e dentro di esso, dentro la terra che sporca le ciglia dei morti di caporalato, dentro la nostalgia dei canti delle nostre nonne, dentro la vita che ancora possiedono le loro rivolte.



Mondine

Montando a mano l'uovo sbattuto 
mia nonna cantava a mezza voce
non sedeva mai, ma se lo faceva 
era in punta, come se scottasse 
come se il tempo a riposo l'avesse
rubato ad altro, che molto più 
importa, come se ci fosse sempre 
dell'altro di più importante che
a scordarsene si faceva peccato

Nei lunghi inverni penzolavo i piedi 
rubavo fette della paradiso
volevo storie antiche e canti 
dicevo dai, nonna dimmi del riso 
(che non avevo ancora dolore 
abbastanza per cogliere allora
lo sguardo appannarsi, ricordi 
ammassarsi come schiuma sul 
mare oltre il velo della sua cataratta)

Diceva: il riso bambina cresce
in file diritte, in righe strette,
come Bersaglieri, mica che è 
bravo no, è che così ce lo abbiam 
spinto noi con le unghie marce 
nella terra inondata, con la faccia sfondata
di caldo e zanzare sotto i 
cappelli nel campo a specchio
 solo gli uccelli, il palpito 
lento degli aironi
grigi teneva il tempo dei nostri canti

Sì, era fatica. Ma la fatica
quella c'è ovunque, era anche qui, nella
mia casa, di pietra, di sangue
da tenere viva sana accesa
le cinque bocche come di sparvieri
almeno uno da far laureare
c'era da andare di notte a cercare
tra le osterie, per raccattare
gli avanzi del mese, strapparli al vino
alla briscola o a lei. 

Perciò vedi, c'era fatica a Vercelli
ma quella fatica almeno era mia
avevo un padrone contro cui
 potermi arrabbiare e lotte da combattere, 
che per tutti erano giuste per 
quaranta notti chiusa in risaia
cantavo nell'aia, insieme agli aironi.

Io e mia nonna mangiavamo sole in cucina. 
Poi arrivava mio padre lei preparava
 la tavola grande
il lento passo del nonno riempiva la stanza,
 parlavano poco, fumavano tra le portate
la tele era sempre accesa sul tg.
Lei stava vigile, appesa allo stipite
come un cappotto lasciato a sgocciolare 
portava il pane, versava il vino
mentre lavava i piatti nel secchiaio 
cantava spesso canzoni antiche
di quei lavori sporchi e brutali
che a ricordarli le veniva nostalgia.

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