Intervista a cura di Gabriele Galloni
- L’estate di Gaia (Musicaos, 2019) si candida a essere uno dei titoli più interessanti della presente stagione letteraria. Raccontaci il tuo lavoro. Il percorso; la genesi, l’evoluzione.
Grazie per la previsione, anche se, come ben sai, non è l’autore a decidere cosa sia interessante e cosa no. Di questo se ne dovrebbero occupare appunto i critici, ma i tempi non sono dei migliori; se aggiungi il fatto che la critica tende ad emarginare ogni cosa disturbi la ‘quiete pubblica’ dei canoni (difatti anche un anti-canone è un canone), la situazione è più che problematica. Per un emergente, soprattutto, non vi sono altre soluzioni che essere il critico di sé. Se qualcun altro avrà qualcosa da dire sulla nostra opera ben venga, ma sono dinamiche che esulano dal fatto artistico.
Per quanto riguarda la genesi dell’opera: a chiunque si occupi di cose letterarie capita di scribacchiare e, perché no, pubblicare. Nel mio caso non ho avuto fretta di darmi alle stampe; esordisco a ventisei anni appena compiuti, ci sono miei coetanei che hanno già pubblicato due o tre opere, cosa che mi spaventa molto. Fatto sta che un paio di anni fa, spinto da amici quali Andrea Donaera (che ha firmato la postfazione del libro), ho pensato che fosse arrivato il momento per cestinare gli anni della giovinezza ‘anagrafica’ (difatti io non sono né giovane né vecchio, ma è come se dormissi dopo il pranzo, sognando di entrambe queste età, come insegna Shakespeare); nel frattempo bisognava dire qualcosa anche sul ‘letterario’, su cosa volesse dire scrivere al tempo del digitale, oltre la traccia scritta, ora che i più si ostinano semplicemente a denunciare fenomeni come l’iper-produzione di libri o l’appiattimento della scrittura, sempre più semplificata per sopravvivere e racimolare qualche lettore in più, il quale giustamente preferisce bere una birra con gli amici piuttosto che spendere quei soldi per dei libri che non danno nulla.
Dovevo recuperare quegli autori che reputo ideali: sono partito dunque dalle origini, dai trovatori a Dante, includendo alcuni dei simpatici antipetrarchisti; per quanto riguarda la poesia italiana bisogna poi saltare a piè pari i secoli fino a Leopardi, Dino Campana, un certo Pasolini delirante, fino a Carmelo Bene, il cui ‘mal de’ fiori è l’ultima opera italiana di altissima poesia, ovviamente ignorata dalla critica, impaurita da tale grandezza poetica; fuori dall’Italia su tutti James Joyce, che ha scritto un romanzo insuperabile, Ulysses, fino a quel cortocircuito linguistico che è il Finnegans Wake, impossibile per Joyce stesso, che se non sono opere formalmente poetiche costituiscono, meglio di qualunque altra opera, i più grandi corpo a corpo col linguaggio mai tentati. Ma per comprendere meglio certi discorsi bisogna poi uscire dalla ‘letteratura’ stricto sensu e accostarsi a menti splendide quali Freud, Deleuze, Bataille, Derrida, Artaud, geni del pensiero che entrano di diritto nella letteratura perché si sono occupati seriamente dell’atto dello scrivere.
Gettati questi e altri autori in un vero e proprio macello, si è automaticamente sviluppato un discorso che ha investito la scrittura e il contemporaneo, che è sempre prodotto di una scrittura del mondo. Per questo, essendo un uomo del sud su cui gravano secoli di contaminazioni etniche ed artistiche (ovviamente il barocco), mi ritrovo ad affrontare ciclicamente, come un evento biblico-apocalittico, l’arrivo della disgustosa stagione turistica. Ma trattare nell’opera semplicemente la corruzione del territorio avrebbe voluto dire scrivere una di quelle operine da moralisti; non c’è difatti nulla da denunciare, ormai i conti son fatti: se Pasolini scriveva «Venni al mondo al tempo dell’Analogica», il protagonista/anagramma Camicia Pezzata (C.P.) gli fa seguito «or vengo ar tempo der digitale». Non denunciare nulla ma praticare un gioco (Derrida) nelle strutture del linguaggio, della poesia (non viene rigettata la lirica), dei fenomeni che investono la storia corrente. Camicia Pezzata, che assume in sé l’im-mondo, non può che subire il blackout di tutte le significazioni, disintegrarsi per recuperare un’innocenza mai esistita. È un astro che collassa per sovraccarico. L’autore guarda da fuori ed è costretto alla resa, abbandonando la nave; il poema si conclude da solo, si autocita delirante, alla fine si riavvolge. Non è successo nulla; è tutto uno scorrere e riaggiornarsi. Ogni aggiornamento è tornare al punto di fine-partenza (Finn-again, Joyce).
- I maestri vanno uccisi. Sei d’accordo con questa affermazione? E quali sono state – o sono ancora oggi – le tue guide di sentiero?
Come scritto nel libro, in una pagina manifesto-parodia (rispettosissima) di Majakovskij «se i nostri maestri sono tutti morti/a cosa ci servono gli altri cadaveri?». Io non vedo maestri in giro; i miei, appunto, che sono tutti quelli che ti sto citando, sono tutti morti. Gli unici che mi son rimasti sono alcuni musicisti, che hanno influito anche loro profondamente sullo stile di scrittura dell’opera. C’è molto del Roger Waters di The Wall e di Animals o di David Bowie in questo libro. Ma parlare di questo è fare i conti con un tabù dell’ambiente poetico. Del resto, prima di escludere frettolosamente i cantautori dal genere poetico (genere in cui ormai gli addetti ai lavori fanno confluire qualsiasi cosa che vada a capo), bisognerebbe quanto meno sforzarsi di scrivere testi che siano qualitativamente più o meno accostabili a quelli de La Buona Novella. Reputo i testi di Animals o dei C.S.I. più importanti di qualsiasi produzione dei poeti detti “impegnati”; alcuni di Bowie e dei primi gruppi prog-rock migliori di tutta la beat-generation letteraria. Quando Giovanni Lindo Ferretti legge «Il Gorgo» di Fenoglio si mette in tasca tutta la poetry-slam, fenomeno che non comprendo e che mi imbarazza molto, senza offesa. Non capisco tutto quel gesticolare.
- Sei anche critico letterario (Satisfaction, PENS, Poesia del nostro tempo); come concili questo con la tua ricerca personale? Influisce in qualche modo?
Come dicevo all’inizio, bisogna essere il critico ideale di sé e, come insegna il vecchio Wilde, perseguire la propria strada. A un certo punto, ne Il critico come artista, dice che il critico riterrà valido solo un modo di fare arte, il suo. Ciò non vuol dire sostenere un ideale ottusamente, una poetica, ma raccogliere quanto di eccelso sia stato fatto o scritto (che è già una mole infinita), riunire i pezzi migliori e tendere a quello stesso grado di perfezione. Non c’è molto tempo da perdere con il resto.
La mia ricerca – che è del tutto personale, perché né sono pagato da un’istituzione né faccio parte di collettivi -, non può che essere strettamente collegata alla scrittura; quando scrivo o decido di scrivere mi sono già criticato a monte. Quando addirittura decido di stampare, mi sono criticato per una vita.
- E con la tua generazione? Che rapporti hai?
Con loro parlo e conservo un rapporto amichevole, ma non faccio parte di congreghe. Sono contrariato quando un poeta ‘giovane’ non fa che aderire agli stili in voga. Attenzione: non vuol dire solo scrivere sciocchezze per i grandi distributori; vi sono correnti che si reputano sperimentali e alternative, ma non sono che un’altra struttura, con delle regole e dei canoni, con dei loro rituali. Per questo non mi reputo uno sperimentale, ma nemmeno un lirico puro; ne l’Estate di Gaia ho percorso entrambe le strade, e ciò mi farà probabilmente guadagnare l’ostracismo dei puristi che ne sono a capo. Per questo vincerò pochissimi premi letterari o nessuno, ma non importa: il premio che vorrei vincere con questo libro, che mira a replicare la rovesciata di Cristiano Ronaldo, è il Pallone d’Oro.
- Progetti in corso e in divenire?
Nessuno progetto. Potrebbe anche darsi che questo libro sia stato un caso. Non ho nulla da dire al momento, da troppo poco tempo ho la memoria formattata.