Julian Zhara – L’amore è una parola: facci caso. Manifestazione armata contro “il manifesto delle intimità provvisorie” di Franco Arminio

L’amore è una parola: facci caso.
Manifestazione armata contro “il manifesto delle intimità provvisorie” di Franco Arminio
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Esce pochi giorni fa su doppiozero, un articolo che contiene un appunto di poetica e un manifesto. Firmato: Franco Arminio. Il titolo dell’appunto è: i poeti hanno perso la poesia. In cosa consiste? Principalmente in un’accusetta demodé a dei fantomatici poeti, colpevoli di scrivere testi che girano a vuoto, ancora impegnati a occuparsi di letteratura, tra le righe, apostrofata come una religione senza fedeli, mentre il “lettore” guarda altrove – dove? dove? ma sotto sotto a lui, ad Arminio, ci mancherebbe; e secondo lo stesso Arminio fa anche bene (sempre sotto sotto). Fino a qui, nulla di nuovo. Scorrendo l’articolo però mi ritrovo in un vero e proprio capolavoro di captatio benevolentiae, da politico navigato, pronto ad assolvere il “popolo”, qua ritrovatosi nel ruolo di “lettore”, dalla sua “colpa” di non capire la poesia. Scrive il Nostro: “In realtà bisogna avere l’umiltà di considerare che oggi i lettori sono più avanti dei poeti. I lettori hanno una naturalezza, una capacità di abbandono che molti poeti hanno perduto”. Mi ricorda molto la campagna elettorale di uno, tempo fa, che assolveva il popolo da qualsiasi colpa, adducendo tutta la corruzione alla classe politica, agli altri – in Parlamento. Il popolo l’ha premiato portando il movimento a percentuali inaspettate: primo partito in Italia. Grillismo poetico allo stato brado. Il finale dell’appunto, costruito per avere gli applausi del pubblico da casa, ma pure quello in studio, è: “la poesia si trova nel cuore di chi legge più che nel cuore di chi scrive”. E qui, il lettore mi perdonerà se corro a lavarmi i denti, causa carie, dopo una frase smielata a dir poco, degna del finale di una commediuola americana, con uno sceneggiatore ormai stufo di scrivere solo stronzate per adolescenti tonti (ma lo pagano – i soldi sono soldi) e un regista che pensa di fare cassa, per finalmente riuscire a produrre da sé un film serio. Tornato al pc, mi interrogo non sul lettore, che premia Gio Evan e Francesco Sole gli ultimi anni (Anedda e Fiori, con lo stesso meccanismo distributivo e grandi case editrici alle spalle, vendono molto meno – e chi li conosce…) ma sulla figura di Arminio. Dopo una carriera trentennale da scrittore molto amato dalla critica e da un nocciolo di lettori forti, dopo aver scalato per meriti letterari e grande impegno la grande editoria, scopre che se si prende la poesia, la si riduce a una poltiglia di sentimentalismi con una scrittura da terza media, magari con buoni sentimenti qua, un po’ di immaginario green là, qualche erbetta e fiorellino che cresce – si vende. E vende tanto, Arminio. Inizia questa strategia con Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere, 2017), dominio indiscusso di buoni sentimenti, anche se per forza di cose ci entra la morte, sua ossessione da sempre. Rimane comunque un libro ottimo per preparare gli adulti a un ritorno nella fase scout, il catechismo, il poliamore (quello light, senza ferire nessuno), i free hugs e le gite fuori città per assaggiare prodotti bio. Immagino che il titolo “Cedi la strada agli alberi” sia stato scelto perché ricrescano, gli alberi, e vengano prontamente tagliati per un nuovo best-seller poetico di Arminio. La strategia funziona, a quanto pare. Le poesie omogeneizzate sono perfette per i dentini e lo stomachino dei lettorini e delle lettorine, così poverine e poverini, non si sentono ignoranti davanti alla poesia “difficile” dei poeti. I lettorini e le lettorine, loro, che secondo Arminio pensano col cuore, rinsaldano il loro analfabetismo poetico e credono la poesia sia una poltiglia – bio, non sia mai! – di sentimenti positivi, tra canzone minore di Jovanotti e slogan in piazza per salvare il mondo, se non il mondo salvare qualcosa, basta che salviamo noi, poco importa se migrante o foca.
In un momento dove pensavo al merinismo, una delle più micidiali malattie degenerative del corpo poetico, come debellata, ecco che mi ritrovo al grande ritorno, in chiave diversa, più collettiva, catechistica, populista, e alla sua apologia da parte di uno scrittore che, per certi versi amo, anzi amavo, quando i versi non erano flosci, senza stile, metrica, prospettiva verticale e limatura orizzontale. Ma precisi, perfetti, versi avvolti nello spazio bianco o prosa perimetrata dal bordo tipografico, tanto da far scrivere a Cortellessa: “la prosa di Arminio è perfetta. Si intende dire che immagini e idee, nel suo caso, sono né più né meno che il suo respiro”. Dopo Cedi la strada agli alberi, Arminio ritorna nel 2108 con un libro di versi per Bompiani (Resteranno i canti), di cui è restato poco o nulla, e quest’anno fa il bis in Bompiani con un libro di poesie d’amore, dal titolo L’infinito senza farci caso; sottotitolo: poesie d’amore. Amore, infatti è il tema del manifesto di Arminio.
Prima di arrivare alla seconda parte, vi lascio con una frase estrapolata da un post Instagram di Arminio per la promozione del suo libro: “L’amore è sempre una contestazione all’egoismo capitalista”.


Manifestazione armata contro “il manifesto delle intimità provvisorie” di Franco Arminio


L’amore è sempre una contestazione all’egoismo capitalista. L’amore – è sempre una contestazione -all’egoismo capitalista. Se sillabate piano questa frase, potrebbe apparirvi Marx che usa il buco dell’ozono come glory hole, e vi ritroverete improvvisamente in una comune collettiva, senza banche né assemblee condominiali, nudi, e nell’aria, finalmente purificata, sentirete l’eco di Forever and ever di Demis Roussos. Ma torniamo al manifesto sull’amore. In apertura c’è una “riflessione” moralistica sul porno che dilaga nella società e nessuno si pone “il problema di disciplinare”. Penso intenda denunciare l’assenza di amore in molti filmati pornografici, anche se, parer mio, negli amatoriali l’amore è un elemento più ricorrente che nei video patinati della scuderia Brazzers. Poi ritorna a denunciare l’ipocrisia sui social se usi la parola “cazzo” e magari ne vieni espulso o se metti un contenuto esplicitamente sessuale, affermando che uno come Pietro Aretino, oggi, non avrebbe gran riconoscimento. Solo che Aretino, un genio senza eguali nella tradizione poetica italiana, apriva i suoi Sonetti Lussuriosi con “Fottiamci, anima mia, fottiamci presto / perché tutti per fotter nati siamo / e se tu il cazzo adori, io la pota amo, / e saria il mondo un cazzo senza questo. / E se post mortem fotter fosse onesto, / direi: Tanto fottiamo, che ci moiamo; / e di là fotterem Eva e Adamo, / che trovarno il morir sì disonesto”. Non scriveva “Guardami ancora. / Sorridi se mi pensi. / Pensami con le mani / anche se non mi tocchi.” Oppure “ti cercherò / dentro un albero / una tegola / una scarpa.” E sono solo due parti di poesie, estrapolate da L’infinito senza farci caso. Il resto del manifesto si situa tra un saggio divulgativo e senza pretese di un life coach, la mistica di un santone per ricchi borghesi annoiati e la retorica di un volenteroso insegnante per bambini difficili. Il libro in questione è una rincorsa a sfondare porte aperte col già detto, una pacchiana ricerca dell’afflato amoroso da trasmissione pomeridiana Mediaset, il tutto in versi sgraziati. Gioca al ribasso Arminio, per essere il meglio del peggio, quindi pessimo, senza riuscirci pienamente, perché lì, Evan e Sole comunque sono più bravi nell’uso dei cliché e se la sfida è scrivere male, loro scrivono peggio, quindi vendono di più. Ogni tanto emerge qualche verso folgorante, qualche immagine potente, un passaggio che colpisce, prontamente ritrattato, quasi con vergogna, dall’autore. Sembra un automatismo del vecchio Arminio che riaffiora e cerca spazio. Poi se ne torna ai vecchi libri, triste e sconfitto.


Peccati letterari


Mentre redigo questo articolo in forma di j’accuse, mi chiedo cosa porti un autore che ha indirizzato la sua esistenza alla ricerca letteraria, ossessionato dal tema del paesaggio e della morte, un autore di confine, a sabotare il suo talento, la sua vocazione, per farsi asta autocompiaciuta di una bandiera di mediocrità e populismo letterario, con il culto del proprio narcisismo. Quando Arminio parla di divulgazione della poesia, intende della sua poesia; quando parla di comunità intende una comunità provvisoria di cui lui, lui solo si sente il focolare. E non basta cantare insieme Azzurro o Bella Ciao, per diventare una comunità, né intonare il pòpopopò iniziale de L’amour Toujours di Gigi D’Agostino. Questo, non solo, basta a far ritenere Arminio un nemico. L’unica comunità possibile che pare concepire, la perimetra a dove arriva la sua voce. Non è un caso che il suo target (non comunità, non lettori, non audience nell’accezione di Ong – ma target) di riferimento non si trovi tra i giovani. Nessun poeta o romanziere della mia generazione, quella successiva o subito precedente, vede in Arminio un interlocutore. E se l’unico debito o responsabilità che abbiamo è verso chi ci succede, Arminio ha fallito.
Ma ha successo. Meno di Marracash, il cui album, Persona, esce proprio nei giorni in cui esce L’infinito senza farci caso. E se nel caso del rapper, gli si chiede di superare i lavori precedenti per qualità e flow, di riconfermarsi il talento mostruoso che era e che è, e lui lo fa, si supera, a uno scrittore, poeta come Arminio, da lettori possiamo solo chiedere l’eleganza e la raffinatezza dei suoi libri negli Anni Zero, dove leggerlo era un piacere ma si assiste sbigottiti a una poesia buona per condire il nulla a tema amoroso, con rumore. Come aprire un’ottima bottiglia di Amarone della Valpolicella, che conosci e apprezzi, perché sai che quella azienda lavora benissimo, e scoprire che il produttore ci ha messo dentro il Tavernello misto a fragolino.
Considero Arminio uno degli ultimi trovatori della tradizione poetica. Sono felice che finalmente un autore vada in giro a portare la poesia ovunque, a condividerla. Ce ne fossero. Alcune poesie trobadoriche sono ancora un punto di riferimento per molti autori, anche contemporanei, di molte generazioni. Si pensi all’influenza di Lo fermo voler sul tessuto poetico (non solo) italiano. E il tema prediletto da quella tradizione era l’amore. Ma parlare d’amore significa parlare di cosa intendiamo per amore, attraverso la lingua, tenendo a mente quanto Pagliarani diceva del compito della poesia, ossia tenere in allenamento la lingua. L’amore è una parola, una parola soltanto, su cui bisogna interrogarsi per svuotarla di detriti e cliché. In alcuni dialetti, tra cui il veneto antico, la parola amore non esisteva nel parlato. Era solo un retaggio letterario. “In amore” erano la patata che si squagliava, le bestie che non obbedivano, un uomo che impazziva. Tra le persone bastava il “volersi bene” (voerse ben). Essere poeti significa entrare dentro le crepe della lingua, dell’immaginario, e osare dove la retorica giornalistica, i discorsi usuali non arrivano. Se uno scrittore di razza non lo fa, decidendo di rispecchiarsi nel merinismo più stanco, è un peccato. L’unico peccato di un autore (un poeta!) è non avere cura delle parole. Parafrasando Pasolini: quanto bene potevi continuare a scrivere! E non l’hai fatto: / non c’è oggi un peccatore più grande di te.

Julian Zhara

*il manifesto di Franco Arminio e il suo appunto di poetica si può leggere qui: http://www.doppiozero.com/materiali/un-appunto-e-un-manifesto

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