La ferita che prepara la dizione – sulla poesia di Francesca Marica

di Giorgia Esposito

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Per addentrarsi in Concordanze e approssimazioni (Il Leggio Libreria Editrice, 2019) bisogna necessariamente ripensare al senso dell’anelito e della forma, come fa il giovane Lukács in una delle sue pagine più ardenti:
«La forma è il giudice più alto dell’esistenza. La facoltà di rappresentare una forma è una forza giudicatrice, un fatto etico, mentre ogni soggetto rappresentato contiene un giudizio di valore. […] ogni forma della letteratura [rappresenta] un gradino nella gerarchia delle possibilità di esistenza».


Tutto questo Francesca Marica lo sa bene. La sua poesia, risultato di un decennio di «chilometri tritati nel digiuno» e inesauribili riflessioni sul possibile, il visibile, le creature e il tempo, rivela in ogni momento, passo o cesura tutta la portata di una consapevolezza senza sconti e della ferita che inevitabilmente comporta, la ferita che, nel profondo silenzio senza appiglio, prepara la dizione. Concordanza e approssimazione, vicinanza e prossimità, la possibile e sempre fragile conferma che si ottiene solo dopo graduali avvicinamenti, tensioni, puntigli, guerre dichiarate all’oblio: ecco l’anelito che come marchio di fuoco scandisce questi versi apparentemente calmi, sempre misurati, sempre «adeguati», come ben dice Marco Sonzogni nella bella prefazione che accompagna la raccolta.

Cronotopo e archetipo, contingenza e permanenza si fondono in un movimento preciso, raggelato, netto: la forma, la forma che, nel caso di Marica, non può che essere di ampio respiro, spesso endecasillabica, ancora più spesso ipermetra, pronta ad incapsulare la «nota che ha trovato la propria intonazione». Con un linguaggio semplice e sorvegliato, non privo di vertigini semantiche, talvolta ripiegato su di sé ma mai schivo ad una possibilità di accesso e accensione, Marica procede adagio, non si fa intrappolare dal ritmo frenetico e ansiogeno degli esterni, opponendo un coraggioso «assolutismo lirico» (Galaverni) in barba alla crescente ostilità di alcuni dibattiti coevi. Il lirismo, tuttavia, non esclude l’angoscia dell’epoca, un costante pericolo di afasia: «[…] le nostre parole finiranno, finiranno a breve».

Numerosi sono i richiami intertestuali che l’autrice stabilisce con i poeti più amati: Anedda, Rosselli, Ruggeri, Benedetti (solo per citarne alcuni). In linea con certa grande poesia secondo-novecentesca, lo sguardo affilato di Marica si origina da un nucleo domestico fatto di (ri)prese e squarci quotidiani, oggetti, gesti minimi e essenziali (l’isola, la neve, le dita, il bianco, la pelle, la periferia, i balconi, le ringhiere, i fiumi, i giardini), mai dimentico e sempre teso ad affacciarsi sugli «orrori della storia e del potere»: la centralità della giustizia e del diritto porta non di rado all’impiego di un lessico giuridico, severo, assertivo. Ma non mancano veri e propri allarmi, dubbi, pungoli, domande quasi sospese nel vuoto, frequenti corsivi che mimano parole pronunciate o immaginate, improvvise illuminazioni, sentenze gnomiche:

Qualcosa fiorisce anche dentro un taglio
ma voi datele un veleno che faccia
risvegliare i suoi bambini.
Mettetele una benda sulla bocca
e poi dopo, zitti tutti.

L’aliante vince la resistenza dell’aria.
Un opale è fatto d’acqua, la imprigiona.
Risposte, simboli, intuizioni in un dialogo a più voci.

Si perde nel fondo dei suoi occhi, è finita la sua rabbia.
Arrivate. Fate presto, non scherzate.

*
Non ci sono più unghie che abitano la pelle
solo l’erba disegna ancora giardini sulle ossa.

Qui una volta c’era un fiume
e la tristezza era un’eco di falena
che rendeva pazzi i cani.

Se ci siete fate un cenno, respirate.
La bellezza è un’ingiunzione.
[…]

*
[…]
Era la favola della periferia lontana,
con i porti sepolti a picco
e la vergogna degli inganni.
Nessuno che supplicava di perdersi tra quelle strade,
la disattenzione del giorno a fare il foglio bianco.
Io vi avrei amati tutti, uno a uno,
nella totale imperfezione del momento.

Serve un gesto di molta precisione
per aiutarsi a crescere ancora.

Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace.

*
[…]
Il pane perso dalle mani,
messo in salvo dalle labbra,
portato in tavola come un dono.
Perché a tutti possa essere assicurata la propria parte.

La rivoluzione urtarsi,
lasciare da parte il coltello,
affondarlo nel fodero.
Dimenticarsene.

*
[…]
Difficile capire chi sia nel giusto
e dopo che lo hai compreso non è detto che ti serva,
l’intera esistenza ne può uscire compromessa.

Vince chi per primo indica e poi fugge?

Una parola che senza dubbio si addice alla poesia di Francesca Marica è attenzione, forse la più alta forma di tenerezza. Tutto – volti, strade, voci, nomi – sembra accolto e avvolto da una premura millimetrica, sorvegliata, irriducibile, che rende la cifra di una coscienza sempre in fermento: «Tutto sopravvive a una possibilità di traduzione / tutto sopravvive a un altrove». Tutto: anche «i piccoli gesti di dimenticanza», anche «[…] le cose sospese. / Le uniche che sia in grado di amare». Ѐ qui, nel senso di irrisoluzione che aggruma le forze, che si rintraccia la fiamma di questi versi, la qualità intrinseca della poesia come luogo di luce, sospensione, silenzio.

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