Nota di Pietro Romano
Cifra peculiare della poesia di Daìta Martinez sembra la trasposizione testuale come operazione di tessitura di parole «in un flusso coscienziale che si fa fluenza verbale». In particolare, in prefazione a Il rumore del latte (Spazio Cultura Edizioni, 2019), Lucio Zinna scrive:
«Su questa linea, rinveniamo nella Martinez una segreta- ma non tanto- voglia di sperimentare, come già dei marinisti, che si adoprarono in mille modi a voler acclarare se e fino a che punto potesse dilatarsi la metafora. In prefazione a “la bottega di via alloro” della nostra poetessa, Nicola Romano aveva, a sua volta, avvertito echi marinettisti: futuristeggianti. Il fascino (discreto) della sperimentalità fa essere questa poesia riguardosa di una tradizione innovativa, per così dire, consolidata, giammai scontata, e nel contempo sganciata da essa, libera di procedere su un terreno proprio. (…) Il tutto senza pause, in assenza di interpunzioni (…)Ti lasci trascinare dal flusso e a un tratto di accorgi che la scena è mutata o ricomincia dove pareva conclusa, terminando su altre tonalità. Il “ritmo indaffarato delle vene” è quello della poesia della Martinez. Il ritmo del cuore, quel muscolo cui accennava la grande e obliata Maria Occhipinti, secondo la quale il cuore ha bisogno del cuore».
A sostegno della teoria di Zinna, secondo il quale il rumore del latte è quello delle gocce che cadono su un foglio anch’esso bianco, sovviene il testo in apertura alla raccolta:
lenta lentamente s’avvicina
colma involontaria mente di
sponda protesta sottosopra
l’assente corpus estende un
candore muto internamente
Come si può osservare, la struttura formale del testo risponde a istanze metrico-ritmiche volte a contenere le parole entro una precisa trasposizione audio-visiva. Tale procedimento compositivo si connette con un’operazione associativa di parole nel cui intreccio sonoro è possibile scorgere una cadenza a tratti litanica. La ricerca poetica di Martinez sembra così improntata, mediante l’impiego di ritmi in gran parte percussivi, a evocare l’idea di un’origine ineludibilmente perduta, che si avverte come ferita alle radici della lingua:
nel giorno dintorno s’è svegliata
contorno d’una fluida equazione
del mentre fa luce l’affondo così
a fondo nelle vergini mani s’ama
di tu nuda sfasata ovunque vada
Le parole sembrano soggiacere a una forza centripeta che le muove verso significati archetipali attingibili dalla struttura stessa del testo. Le «vergini mani» tra le quali s’ama assurgono alla funzione di metafigure attinenti a un’idea di origine che Martinez rischiara attraverso «l’affondo a fondo» nel cuore del linguaggio:
allattare l’alba un momento prima che
sia alba e leggerti affacciata dal viso
I versi di cui sopra paiono acquistare una valenza metapoetica, per la quale l’io si interroga sull’origine stessa dello scrivere. Il latte è immagine archetipale per eccellenza, che conduce Martinez verso una più ampia riflessione circa il divenire delle cose e la loro memoria:
avrebbero stormito un silenzio avverso
confondersi dagli sguardi il vino bianco
mesce il mare uno sfioro l’alba sospesa
ai chicchi si scrive di peccato lo smalto
sul lenzuolo quegli anni che il braciere
profumava di carezze e l’olio buono
nei boccali con una fiaba parlata di biscotti
La mancata corrispondenza tra segno e significante si erge a emblema di una ferita storicamente impossibile da medicare, se non nella poesia, che figura come luogo dei possibili, in cui anche l’infanzia può tornare a essere:
spenta la finestra gerani rotonde macerie
una volta ricorda la bambina ha tagliato
il pane di pezza era il cestino una scusa
le trecce arrossate una bocca poggiata
di sola ninna nanna il sangue dei limoni
L’assenza di segni di interpunzione accentua il ritmo percussivo della lingua, cui si unisce il ricorso a rime interne o a sonorità iterative allitteranti:
dietro al bancone archivia controvolto
lieve la palpebra riflessa conflessa un
solo aranceto non s’era in buona fede
per l’altro l’oltraggio che il vestito svia
dalla memoria al seno piccolo piccolo
ingranaggio i ricordi lo stesso modo a
modo s’insegna melanconico stupore
Sullo sfondo di dolori intimi che richiamano ferite ancestrali, si affastellano le immagini di una Palermo mutata e nel mutamento irreversibilmente ferita:
si poteva dimenticare un amore
dalla pelle che s’apre per quella
carezza quasi uno specchio del
tramonto la vecchia palermo da
lasciarsi tornare spudorati e soli
Il rumore del latte pone in risalto il binomio alba/tramonto come specchio dell’esistenza nel suo divenire. Il divenire è vissuto come condizione reversibile solamente a patto che l’io ricompatti le immagini del proprio ricordare in un corpus testuale che renda conto della forza rigeneratrice della parola poetica.
Come annota Nicola Romano, ambivalenze cromatiche e sequenze di visioni si esplicano in una poesia abitata da «dissolvenze e sovrapposizioni figurative (…) quasi a far sentire la cadenza intermittente dei fiotti di latte nella secchia». Quella di Martinez, allora, appare come una poesia germinativa, che si inabissa nelle scaturigini della parola per sanare la dicotomia tra significante e significato attraverso l’inesausta forza generativa della lingua.
Pietro Romano