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I. Giorgio Ghiotti si muove nella tecnica e nella narrazione come fa il pittore, per parti più piccole di un tutto.
I frammenti che dispone hanno il pregio di poter essere distribuiti in serie infinite, in collocazioni spaziali e logiche che ne accrescono il senso, che aggiungono varianti; la capacità di essere compiuti in sé e la vocazione a rimandare ad altri.
Il procedimento o il risultato – perché si tratta di due esiti diversi – sono antichissimi se consideriamo i poeti della Grecia antica e la lirica monodica e corale, l’elegia in distici e il metro giambico, e sono presenti a quella parte rilevante della poetica del Novecento indicata proprio come Frammentismo, legata ad una concezione dell’opera letteraria come mosaico di immagini, di episodi slegati (pensiamo a Sbarbaro di Pianissimo, per rapida associazione di idee, o a Rebora) ma diventano nel nostro tempo ancora più significativi per i mutamenti intervenuti nella lingua e nella poesia, nel modo in cui è dato di essere sulla parola e nella parola.
In Alfabeto primitivo, ogni traccia è legata a un’altra con un complesso sistema di distanze e di scale, di pesi e misure; si può parlare di disegno poematico in riferimento alla struttura del libro come alla percezione delle forze con le quali si è lottato, risolvendo la contraddizione -solo apparente- tra la fragilità del materiale che rimanda alla dispersione e l’esito finale della costruzione, quasi fosse prevista, nel progetto, una serie di collegamenti per unire i muri portanti dell’edificio, per alleggerire e per sostenere.
La scelta di fare poesia con un insieme ordinato di parti che concorrono alla definizione di un tutto può essere spiegata pensando al flusso dell’interiorità o allo stream of consciousness, ma corrisponde in realtà alla sola strada percorribile se si intende lasciare spazio a quell’arte che Hegel pensava, nel modo più elevato possibile, a partire dal suo auto-superamento.
Scrive in proposito Agamben sulla dissoluzione dell’identità della soggettività artistica con la sua materia: “Ciò di cui l’artista fa esperienza nell’opera d’arte è, infatti, che la soggettività artistica è l’essenza assoluta, per la quale ogni materia è indifferente: ma il puro principio creativo-formale, scisso da ogni contenuto, è l’assoluta inessenzialità astratta che annienta e dissolve ogni contenuto in un continuo sforzo per trascendere e realizzare sé stessa”1
Al centro della poetica di Alfabeto Primitivo, quindi, c’è un concetto di poesia come brevità necessaria, immediatezza autobiografica impossibile da definire altrimenti, folgorazione dei sensi, annullamento di ogni struttura: l’idea che il dettato non possa essere che per frammenti e, come tale, inconciliabile con ogni forma di letteratura ‘costruita’ e ‘oggettiva’, con ogni tipo di poesia, vorremmo dire, che ne condivida le caratteristiche e l’intento.
La scelta di un tempo immaginato come eterno flusso determina un movimento fluido e sinuoso dei soggetti, una sorta di ordinato muoversi delle cose. Il metodo permette all’Io protagonista di sentirsi parte dell’essenza del mondo, in profondità, e percepire in sé stesso il suo vivere.
Nel dibattito sulla poesia oggi, se sia più rappresentativa o meno del mondo di cui vorrebbe parlare, più o meno adeguata a dire il reale nelle sue numerose sfumature, questo è un punto di notevole importanza: il mondo è cambiato assai velocemente negli ultimi anni, ed è probabile che le forme alle quali eravamo abituati siano svuotate di senso, non siano più proponibili.
Le motivazioni espresse dai sostenitori del “frammento” deriverebbero dal fatto che questa dimensione fenomenica avrebbe abolito l’Io e la sua centralità nella composizione, che abbia agito in modo da demolire o liquidare il lirismo, ed entrambe le affermazioni contengono una parte di verità.
Ad un livello più immediato, quotidiano, c’è invece il frammento che miniaturizza la parola, che la sminuzza e la riscrive, che rende più forte la voce poetica per ogni strappo in più che pratica, per ogni taglio che incide.
Comporre per frammenti significa prendere atto della frammentazione del linguaggio attuale, della sua sparizione (pensiamo alle tecnologie che hanno trasformato la conversazione e la voce in una proliferazione di messaggi), adottare le modalità di comunicazione odierne, seguire il presente che continuamente sfugge.
L’impegno, come ha notato la critica in riferimento ad altre categorie, è quello di muoversi intorno al vuoto del soggetto e del linguaggio, di misurarsi col Nulla, fare i conti con un significante che non giustifica più la posizione di preminenza rispetto al mondo.
La poesia di Ghiotti, proprio perché collocata -come è stato scritto- in un tempo trasparente, in una adolescenza che non è stata, in una moltitudine di stradine laterali, è in grado di portarci nei pressi di quel «vuoto» che chiamiamo Io, di misurarsi col linguaggio, di avvicinarsi al Nulla.
superficie luminosa, nome d’aria
o solo aria senza più febbre di corpo
lastra contro il sole: da qui inizia
la vita dei dettagli, la festa in villa,
la frase che nessuno ha pronunciato
e che annuncia l’imparzialità
del male.
II. In Alfabeto primitivo, come abbiamo detto all’inizio, c’è molto della tecnica pittorica, e molto anche del gioco; in qualche caso, una sapida dose di surrealismo.
Quella del gioco è un’idea che molti scrittori rifiutano, probabilmente perché gli assegnano un ruolo minoritario, legato al divertissement, al di-vertimento.
Qui l’autore incastra le parole, le addomestica, le smonta. Non si tratta di un virtuosismo fine a sé stesso, ma di un procedimento necessario a trattare temi intimi e personali, a incontrare l’altro-da-sé.
Lo stile tende al dissolvimento della soggettività nel momento stesso in cui pare presentarla come dato incontrovertibile, urla o sussurra ma non annulla la dizione, presenta la verità senza senza accenti patetici, porgendo più di uno specchio; come ha detto opportunamente Chiara Valerio nella sua prefazione, Alfabeto primitivo è un polittico.
Vorrei provare a dire qui che tipo di polittico.
Un polittico, ricordiamolo, è una narrazione composta da più parti, pannelli separati racchiusi in una cornice che sistema gli elementi in una struttura architettonica; l’opera può essere fissa o mobile e, in quest’ultimo caso, è costituita da più parti unite fra loro con un sistema di sportelli richiudibili, assicurati a perni e cerniere.
Le tecniche sono le più varie, pittoriche o scultoree, ma è la disposizione, il percorso suggerito, gli ostacoli e le sorprese –in una parola, il gioco– ad assumere valenza: che si tratti di un dittico o di un trittico, che le immagini siano leggibili recto o verso, che all’interno ci siano composizioni minori o nascoste rispetto a quanto collocato al centro, il gioco rimane una parte essenziale di questo tipo di espressione.
Un altro particolare degno di nota è che un polittico è, essenzialmente e per definizione, un’opera sacra, importante al punto da costituire sfondo per la celebrazione liturgica, lettura simbolica e allegorica della Parola, e non a caso veniva collocato alle spalle dell’altare.
Ho richiamato questi elementi per dire di quale tipo di costruzione si possa parlare a proposito di Ghiotti.
A me ha ricordato due opere che continuano ad affascinare: la prima è il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck nella cattedrale di San Bavone a Gand, le sue scale di rappresentazione che si sovrappongono e, in particolare, il continuo rimando tra registri, tra la solenne monumentalità delle figure superiori e i paesaggi affollati di figure in azione nella parte inferiore; la capacità di includere lo spettatore nello spazio della rappresentazione tramite alcuni accorgimenti come l’uso di una linea dell’orizzonte più alta, che fa sembrare l’ambiente “avvolgente”, come se il cielo e la scena fossero in procinto di rovesciarsi su chi guarda.
Un altro aspetto che cattura è quello dell’Agnello Mistico, che nell’opera rappresenta Cristo e il suo sacrificio. Il suo aspetto è così singolare da ricordare un volto umano, il sangue che fuoriesce dal suo costato e che viene raccolto in un calice. Spogliato da ogni riferimento religioso, possiamo vederci la redenzione che viene dalla bestia, dall’animale che non avevamo considerato, da una creatura ritenuta inferiore che è però capace di forza salvifica. L’agnello -a minuscola, con tutto quello che significa- rimane sull’altare del sacrificio versando incessantemente il suo sangue, tra gli strumenti della passione, i turiboli e gli angeli raccolti in preghiera.
Da questa parte ridotta di mondo
che pure conserva una sua bellezza
io cerco l’animale che eri tutto in istinto
quando ci brillavano stelle dentro il sangue
e l’altezza misurava il sogno come usa
il coraggio per parlare.
Ma, ancora di più, mi ha fatto pensare a Bacon e a un suo trittico che, più degli altri, rappresenta il vertice della sua ricerca, Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion: la grande tela tripartita traccia magistralmente in pittura tre fasi tragiche dell’agonia di un uomo, la sua dissoluzione e il suo disfacimento, la sua esposizione in quarti, la devastante bellezza della sua rovina.
Mai come nei passaggi di questi due esempi, apparentemente legati alla storia dell’arte, la tecnica di Ghiotti si avvicina a quella di Montale, alla volontà di trasferire i dati del reale su un piano puramente probabilistico, di ritenersi prigioniero della condizione esistenziale.
Come ha scritto D’Arco Silvio Avalle, “Se nel fondo oscuro dunque della coscienza le forme della realtà si sovrappongono e scompongono continuamente, quasi a ritrovare la loro unità (o indistinzione?) originaria, resta pur sempre inalterato il senso del messaggio che esse inviano al poeta: quello che egli compendia, more solito ellitticamente, nel “lampo” che illumina e nello stesso tempo distrugge chi ha osato sostenerne la luce.”2
Anche qui il principio di indeterminatezza interessa anche il problema del linguaggio, delle funzioni, senza per questo comportare, o offrire, le spiegazioni offerte da Montale.
Quello che a noi interessa, l’unità del componimento e del sistema di interazioni su cui esso si regge, non è affidata ad altro che a un sistema di interazioni, interazioni tra frammenti.
È possibile che tu abbia baciato la morte
e ne sia uscito più vivo. Avresti dovuto gelare,
il cuore poteva arrestarsi, hai sentito lo sforzo
del sangue per essere ovunque nel tempo
per fare del tempo un macigno volante leggero.
III. Se la complicazione della messa in scena e il rigore compositivo sottintendono una consuetudine e una mano esperta, non mancano dettagli che rivelano l’uomo integrato nel suo tempo, nella cultura dei nostri anni.
Ogni influenza di tipo letterario comporta di norma un processo di selezione e di riordinamento dall’interno delle letture, ma qui le immagini e le frasi, le parole stesse, portano i segni di un processo di rilessicazione o vocabolarizzazione, di una cartografia personale, privata -…orto non era, ma reliquiario, sembra ancora di sentire Montale, non a caso In limine.
Per Giorgio Ghiotti ogni parola ha un destino individuale e una vocazione propria: in altri termini, può permettersi di riprendere voci ed echi della poesia precedente, di rielaborarli e di stravolgerli, di innestarli nel suo originalissimo ritmo.
Hegel ricorda, nelle sue Jenenser Realphilosophie, che il primo atto mediante il quale Adamo ha costituito la sua signoria sugli animali è consistito nel dargli un nome, nel negarli come esseri indipendenti, rendendoli di per sé ideali. Il nome trasforma il regno delle immagini in regno dei nomi.
“Nella voce, dunque, l’animale esprime sé come tolto: « ogni animale ha nella morte violenta una voce, esprime sé als aufgehobnes Selbst». (un sé eliminato, ndr). Se questo è vero, possiamo ora capire perché l’articolazione della voce animale possa dar vita al linguaggio umano e diventare voce della coscienza. La voce, come espressione e memoria della morte dell’animale, non è più mero segno naturale, che ha il suo altro fuori di sé e, pur non essendo ancora discorso significante, contiene già in
sé il potere del negativo e della memoria.
Essa non è, pertanto, semplicemente il suono della parola, che Hegel tornerà più tardi a prendere in considerazione tra le determinazioni individuali del linguaggio; come pura e originaria (anche se-dirà Hegel-immediatamente dileguante) articolazione negativa, essa corrisponde piuttosto alla struttura negativa di quella dimensione del puro voler-dire che la logica medievale coglieva nel « pensiero della voce sola ».
L’animale, morendo, ha una voce, esala l’anima in una voce e, in questa, si esprime e conserva in quanto morto. La voce animale è, cioè, voce della morte. Qui il genitivo va inteso in senso soggettivo oltre che oggettivo. Voce (e memoria) della morte significa: la voce è morte che conserva e ricorda il vivente come morto e, insieme, immediatamente traccia e memoria della morte, negatività pura.3
Per questo motivo il poeta con il linguaggio tiene in vita lo spirito, perché accetta la morte e la sussume, perché con un potere magico converte il negativo in essere, mostra che il Nulla è solo il velo dell’Essere, non la sua negazione.
“Solo perché la voce animale non è veramente « vuota »… ma contiene la morte dell’animale, il linguaggio umano, che articola e arresta il puro suono di questa voce (la vocale) -che articola, dunque, e trattiene questa voce della morte-può diventare voce della coscienza, linguaggio significante.” 4
Eri tu il mio regno che scompare,
né lo trattengono ora i pensieri
e le parole ormai ridotte all’osso.
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1 Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, p. 82
2 D’Arco Silvio Avalle , Tre saggi su Montale, p. 47
3 Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 58 – 59
4 Giorgio Agamben, ibidem, p. 59
5 Hegel, Filosofia della natura