Nella buca di questo libro

[n.d.r.] Abbiamo commissionato a sei poeti altrettanti articoli sui loro ultimi studî. Questa la nostra prima proposta

Nella buca di questo libro

di Giorgiomaria Cornelio

I

La Carta dell’Umana Redenzione presenta la figura del Cristo crocifisso sul Calvario insieme agli strumenti della Passione, che gli stanno attorno in una specie di fluttuante montaggio: la corona di spine, la lancia di Longino, la colonna della flagellazione, chiodi, fruste e martello… Fluttuante è anche il Cristo stesso, che non sembra in alcun modo appoggiarsi alla Croce; i piedi sono inchiodati in aria, così come le mani, che però reggono la Carta, una pergamena talmente sovrapposta al corpo crocifisso da diventare una seconda pelle, segnata con il messaggio della salvezza. Il sangue che gocciola dalle piaghe è immediatamente consegnato all’inchiostro, e la miriade di chiazze che, come un sudario, ricoprono il Cristo, somigliano a tutti gli effetti a un’unica, ritmata punteggiatura. La Carta sarebbe dunque questo estremo punto d’indistinzione tra la scrittura e il supplizio, tra la carne viva e la pergamena, essa stessa pelle animale lavorata.

Charter of Human Redemption, folio 23r, Brit. Lib. Add. MS 37049 in
Christian materiality di Caroline Walker Bynum.

II

Proprio per via della sua origine animale, la pergamena trattiene un resto di vita, una sottile geografia di imperfezioni, cicatrici, linee delle vene che marcano la pelle prima ancora che la penna giunga a tracciarvi dei segni; la pergamena è dunque già sempre contrassegnata da questa vita animale. In maniera non dissimile, oggi possiamo dire che ogni nostra pagina -anche digitale- conserva in essa un vasto interramento di fantasmi, eredità, lividi e debiti antichi, mai davvero trascorsi e sempre pronti a sopravvenire, infestando gran parte dello spazio disponibile. La pelle è diventata così ispessita che niente di quanto scriviamo riesce a scalfirla a lungo; il raro inchiostro che vi gocciola sopra si secca immediatamente, e ogni nuova ferita –ogni parola– sembrerebbe capace di durare giusto il tempo del suo rimarginarsi. Chiamiamo questo tempo stretto: attualità.

III

Quando, nella prima metà del XIV secolo, Opicino da Canistris inaugura quella che Sylvan Piron chiama -tra le altre cose- una cartografia mistica, egli è «pressato da grandi e tremende tentazioni che albergano nel petto».  Figura errabonda, dapprima miniatore e poi scrivano presso la Penitenzieria apostolica, Opicino viene colpito -nella primavera del 1334- da una malattia (infirmitas) che quasi lo porta alla morte e dalle quale si riprenderà a fatica, perdendo gran parte della «memoria letterale» e restando parzialmente infermo alla mano destra: «la mia mano destra è debole per le cose temporali, forte per le spirituali» (Le Journal singulier d’Opicinus de Canistris). Sempre più tormentato da dubbi spirituali, angosce apparentemente insanabili e impedimenti fisici -che lo costringeranno anche a lasciare l’ufficio della Penitenziaria-, Opicino si dedica «notte e giorno» a riempire «innumerevoli fogli di pergamena […] con diversi cerchi e immagini per descrivere il globo terrestre, e con altre figure misteriose, in una tale varietà di tentativi che nessuna di queste opere è simile a un’altra». A guardarle ora, le carte geografiche tracciate da Opicino esibiscono -sovrapposta alla loro vita animale- una vita psichica che, agitando il foglio nel suo incastro di terre, grafie, diagrammi, figure sacre o deformi, spinge l’occhio all’esercizio della divagazione senza fine. Particolarmente interessanti sono anche le annotazioni con il quale Opicino riflette attorno alla propria opera: «Quest’anno, dalla natività di San Giovanni Battista fino a oggi, ho scritto quest’ultimi quaderni cartacei. Fatta eccezione per alcune note sulle meditazioni sacre, sono stato molto breve su ogni punto, come uno che utilizzi un cucchiaio per estrarre a poco a poco le gocce dal mare di questo abisso per metterle nella piccola buca di questo libro. Che in futuro sia data ai sapienti e a coloro che sono più intelligenti di me l’opportunità di riflettervi» (Le Journal). In queste poche righe, Opicino ci consegna ciò che lui stesso -per eccessiva vicinanza al proprio presente- non è stato capace di afferrare completamente: un eccesso di illeggibilità gettato nell’avvenire come ciò che andrà conservato «fino a tempo debito». Proprio in questa consegna risiede gran parte del mistero (e del fascino) delle carte.  Eppure, così facendo, Opicino ci rende partecipi anche dell’abissalità della sua impresa, dell’angoscia che lo pressa, del suo non-essere-abbastanza per l’immediato, chiarendo così che ciò che ereditiamo è soprattutto un groppo di fantasmi interrati nella piccola buca del libro; ognuno di noi, «sapiente» o meno che sia, potrebbe oggi spingersi ad affermare che questa eredità era stata destinata proprio a lui; che lui solo potrà finalmente accoglierla e scioglierla interamente. Rimane però un altro interrogativo: cosa fare quando la piccola buca s’allarga e arriva a inghiottire l’intero mare – l’intero libro?


Vat. lat. 6435, fol. 71

IV

Il nostro tempo è tempo del seccume, della pelle ispessita, della parola sull’orlo dell’estinzione, della rivolta dei fantasmi che tutto inghiottono. Condizioni, queste, perennemente familiari, se è vero ciò che scriveva Borges: «eravamo, come sempre, alla fine dei tempi». Consideriamo, ad ogni modo, che il problema ci riguardi oggi più che mai. Quale potrebbe essere allora il mestiere del poeta se non quello di coltivare, in una pagina così infestata e così dura da scalfire, lo spazio per quell’unica ferita che tardando a comparire, saprà mantenersi aperta quando tutto il resto si sarà già da tempo rimarginato? Come abbiamo visto, questo spazio non è mai semplicemente il non-scritto, ciò che è vergato di silenzio, ma piuttosto il disaccordo tra la pagina e sé stessa, il punto in cui il foglio è chiamato a contravvenire la propria pressante eredità e la propria certa devozione al presente: spazio impercosso, luogo dei possibili.

IV

Come permettere che vi sia un tale spazio? Si tratterà, prima di tutto, di far riaffiorare allo scoperto le impurità, i lividi, i debiti e i fantasmi interrati nella pagina; di prenderli per un poco in carico; di disporne responsabilmente. Solo così -con questo atto di silenziosa riconoscenza– sarà possibile indebolire la loro grammatica. Lo spazio impercosso è dunque il punto di massima concentrazione della crisi, ma esso si costituisce come luogo di non-coincidenza: ciò che qui si trattienelo si trattiene per dileguare, per dare tregua.

V

Nella 1626, il poeta Guido Casoni pubblica La Passione Di Christo, una raccolta di calligrammi che raffigurano l’arma Christi. Nei dodici componimenti, le parole non si limitano ad avere una funzione descrittiva, ma partecipano alla Passione, subendone gli effetti, come nel caso del componimento dedicato a uno dei chiodi; spiega padre Giovanni Pozzi: «dovendo contornare la figura del chiodo, il poeta ha rotto ulteriormente i versi e perfino le parole» (La parola dipinta).  In questi testi il rapporto tra la scrittura e il supplizio diventa ancora più evidente: per Casoni, scrivere significa necessariamente confrontarsi il ricordo –indimenticabile– della Passione, e con la paradossale questione del Verbo incarnato. Scrive l’autore nel suo Teatro Poetico: «Il verbo divino per effetto d’amorosa clemenza discese dal cielo acciochè noi ascendessimo al cielo; […] l’incomprensibile volle essere locale per darci luogo tra gli angeli». Eppure, nella Passione Di Christo, il confronto non immobilizza il testo, e neppure lo spinge dalle parti di un silenzio rassegnato. Casoni sceglie di inchiodare alla pagina il debito che la scrittura ha contratto con sé stessa; proprio perché inchiodato, riconosciuto, reso manifesto, esso può allora cessare di agitarsi e di coincidere, lasciando spazio ad un’altra, ben più feconda apertura: «chiodo, che dai ferita, / che toglie e dà la vita».


Guido Casoni, La Passione Di Christo

VI

Afferma Paolo di Tarso nella Lettera ai Colossesi: «Dio ha dato vita anche a voi, […] perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2:13-14). Portandoci nella poesia, dobbiamo tenere a mente che essa sorge non malgrado, ma attraverso il confronto diretto con un documento di tale natura.  Vi è spazio per la poesia proprio laddove il debito si raccoglie per essere indebolito, inchiodato al suo processo di dileguamento. Muovendoci al di là, siamo tenuti a conservare soltanto l’esperienza del disaccordo, ovvero quel presagio d’inattualità che si mantiene vivo in ogni dominio dell’attuale. Il gesto poetico toglie di mezzo tanto lo spettro della fine ereditata quanto il facile affidamento al tempo presente, favorendo ciò che illimita la parola, la getta oltre la sua natura immediata, ne fa rivelazione intempestiva, abbattimento delle dottrine, dei bilanci sul mondo, dei pallidi attributi della specie. Così, poeta non è colui che esaurisce la ferita, ma colui che -preparandone lo spazio- continua a restare nel suo annuncio: «e sia la piaga […] fonte d’amore» (Casoni).

Postilla

«Solo resistendo nel non-più e nel non-ancora, nel nulla della notte, ci si mantiene aperti ad accogliere i primi segni del giorno che viene. Quanti siano quelli hanno creato un’apertura per ciò che viene, non conta. Chi sono, è decisivo per la loro posizione, perché essi, interpretando i cenni di ciò che viene, danno la misura dell’essere.» (Jacob Taubes, Escatologia occidentale)


Giorgiomaria Cornelio ha co-fondato l’atlante Navegasión, inaugurato con il film Ogni roveto un Dio che arde. È curatore del progetto di ricerca cinematografica La Camera Ardente, e redattore di Nazione Indiana. Suoi interventi sono apparsi su Le parole e le cose, Doppiozero, Il Manifesto, Il Tascabile.

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