a cura di Pietro Romano
intervista a opera del curatore
I procedimenti di articolazione testuale della poesia di Martinez paiono ubbidire a specifiche posture del sentire che riconoscono nel bianco del foglio uno spazio di espressione compiuta. Le parole, disposte sulla pagina «come oggetti fisici sonanti», allestiscono una tramatura di memorie e di luoghi che riaffiorano nella loro consistenza costitutiva attraverso strategie fonico-linguistiche di volta in volta riadattate in base alle dettature della voce. L’improvvisa commistione del dialetto all’italiano, la disseminazione di strutture iterative, la destrutturazione del verso o la totale disarticolazione di quest’ultimo, le rappresentazioni sinestetiche, i lunghi accumuli e infine l’utilizzo della punteggiatura come centro di raccolta del pensiero quando quest’ultimo è chinato nell’osservazione del Sé o del momento poeticamente rappresentato – in Martinez la punteggiatura è pressoché assente, suggerendo l’idea di una parola uterina, collocata in un flusso in continuo divenire- sembrano riferire di una poesia guidata dall’eco di libere associazioni mentali.
P.R. Se potessi schiudere gli occhi nella pienezza limpida del foglio, che cosa vedresti?
D.M. L’imperfettibile simmetria della parola assente nel bianco assoluto del silenzio
P.R. La particolare struttura ritmico-visiva dei tuoi componimenti suggerisce l’idea di una parola che cerca di sganciarsi dalla propria corporeità per fare risaltare l’operazione metaforico-analogica che l’ha generata. Che rapporto esiste tra corporeità e poesia nella tua voce? E tra poesia e dialetto?
D.M. È il corpo specifico della parola a esporsi nella minuta di un gesto incalzante lo sfondo nel luogogola del mio di corpo raccolto sulla soglia dell’ascolto. Un dialogo a mani aperte dentro il corpo, e fuori dal suo trovarsi dentro, che mi osserva e che osservo per tentare di raggiungere il baricentro di un attimo, il respiro che ne corrisponda il senso. Lo sguardo filologico del dialetto ha genesi nel pensiero quando si cerca origine nell’origine e altro modo non ha se non quello di porgersi al viso di un dettato espressivo che è in me archè e sintesi sostanziale.
P.R. In nutrica (LietoColle, 2019) scrivi «ho addosso/nessuna aritmetica». Dove affonda la voce di un poeta? Qual è il rapporto tra lingua e sacralità nella tua poesia?
D.M. L’affondo prova a interrogarsi interrogando la verità. Se poesia è verità dell’esistente e il tutto esistente è sacralità il rapporto non può che essere una coniugazione coincidente e rispettosa. O almeno questa è l’equazione del mio sentire.
P.R. «anche le nuvole danno inizio alla storia dei mimi nella gabbia di panchina solitaria si muove la lotta da curvare senza abbassare l’acqua dell’insieme» (da nutrica, pag. 123). Frequenti sono, nella tua poesia, le figure attinenti a un’idea di origine. Che cosa significa per te l’esperienza poetica? Che parte ne ha la parola nella relazione con l’alterità?
D.M. La relazione, quando autentica, non può prescindere dall’incontro con l’altro da sé e con l’io già altro a sé. E in questa relazione, nucleo primigenio, è la parola quale scorsa poetica in movimento verso il grembo esperienziale dell’accoglienza che si avvicina, solleva e soffia una carezza sulla guancia.
P.R. «muoviti arco di dolore dal ventre scorretto e fragile d’ulivo s’è bagnata la siepe ai suoi occhi l’inverno dai cappotti spaiati d’intorno alla pozza del gioco anulare» (da nutrica, pag. 96). Il bianco del foglio come luogo dove l’interiorità si rinfranga ricomponendo i suoi spazi. L’inchiostro quale dimensione liminare da varcare ai fini dell’espressione del Sé. L’inabissarsi in tintinnii sonori che evocano significato. Come muta una figura nell’atto del ricordare?
D.M. Il ricordo quale trasfigurazione dell’accaduto. La distanza temporale, per genesi di memoria, trattiene e modifica il paesaggio del vissuto. Lo stato percettivo ha l’odore del tempo evocato, modificato dal presente. È un’immersione nello spazio bianco della distanza per risignificare il suono pur anche di una foglia che muove il vento dello sguardo. Un solfeggio privato, nostalgico, filtro di ogni mossa, parola, di ogni più piccolo frammento intravisto e spesso taciuto all’ombra della pelle, e che alla pelle si tiene per non cadere nel timore dell’abbandono.
Questi versi sono tratti da Nutrica (Lietocolle, 2019)
quest’ora cruda
un via vai le urla
assordate di una
donna c’è vento
*
un filo e un viso
profuma il cielo
la pietà l’angelo
la grotta piccina
*
ti baloccavo a
nascondino la
mela è caduta
ieri nel pozzo
*
hai detto è tua
la colpa a una
figlia di gesso
snudavi l’orto
Daìta Martinez, palermitana, ha pubblicato con LietoColle (dietro l’una), 2011, segnalata alla V Edizione del Premio Nazionale di Poesia “Maria Marino”, e nel 2013 la bottega di via alloro. Vincitrice – sezione dialetto – del 7° Concorso Nazionale di Poesia Città di Chiaramonte Gulfi, è stata finalista, per l’inedito in lingua siciliana, della 44° edizione del Premio Internazionale di Poesia Città di Marineo. Inserita nell’Almanacco di poesia italiana al femminile “Secolo Donna 2018”, edizioni Macabor, nel 2019 ha pubblicato la finestra dei mirtilli, suite poetica stilata con il poeta comisano Fernando Lena, Edizioni Salarchi Immagini, il rumore del latte, Spazio Cultura Edizioni, e nutrica, LietoColle. È vincitrice del Premio Macabor 2019 – sezione silloge inedita di poesia – con pubblicazione, ‘a varca di zagara in lingua siciliana.