Nicola Bultrini | La poesia è sempre audace e resistenziale

di Riccardo Canaletti


R.C. Ciao Nicola, intanto è un onore per me intervistarti, dal momento che sei stato il primo poeta contemporaneo che io abbia conosciuto (e il mio mentore insieme a Umberto Piersanti). Iniziamo con una domanda molto generale. La tua poesia sembra porsi a cavallo tra tre due grandi passioni: la musica e la storia. In che modo ti hanno influenzato direttamente nella pratica di scrittura e nel modo di impostare i contenuti della tua poesia?

N.B. Per quanto riguarda la musica, tieni presente che per me la poesia è essenzialmente “canto”. La disciplina, il rigore che c’è nella musica corrisponde a quello che deve esserci nella poesia. Dove però sono le parole a “suonare” autonomamente. E questo è sempre vero, anche quando apparentemente regna nel testo una certa “libertà”. Ma anche nel free jazz non si suonano mai le note a casaccio, in preda all’anarchia. Jazzisti come Ornette Coleman studiavano la musica classica. E Charlie Parker ha elaborato tanti suoi pattern proprio studiando Bach. Insomma, la musica si deve sempre sentire e io la cerco quando leggo. Un tempo era più facile, quando ci si aiutava con una metrica rigida. Ma anche oggi, la puoi cogliere, nel linguaggio in sé, ma anche ad esempio nelle assonanze, la rimalmezzo, oppure la percussione di certe immagini. La storia invece interviene nella misura della “memoria”, ovvero l’esercizio di recuperare la cronaca del nostro vissuto, l’unico di cui possiamo davvero raccontare. La memoria però non deve scivolare nella semplice nostalgia, piuttosto deve far riemergere e al tempo stesso costituire un terreno fertile da cui attingere per ripensare l’oggi. La memoria poi, individuale o collettiva, racchiude una sapienza che consente (almeno a me) di calarmi in un’altra dimensione, speculare a quella in cui vivo, che quindi posso guardare come avendo capovolto la lente. A ben vedere, anche la storia/memoria ha la sua melodia (i fatti nudi e crudi) e la sua armonia (il contesto), anche se non sempre si vede a occhio nudo.

R.C. Ne La specie dominante (Aragno, 2014) si avverte, rispetto alle opere precedenti, una consistente volontà di asciugare il verso, volontà che si è concretizzata ulteriormente ne La forma di tutti (Capire, 2019). Cosa ti ha portato a ricercare questa pulizia stilistica?

N.B. È frutto di un lavoro molto duro, che impone una massiccia dose di autocritica. Ha senso scrivere (per pubblicare) se si ha qualcosa di autentico da dire. Il che impone di eliminare tutto il superfluo, cioè tutto quello che appartiene solo a me e non può riguardare altri. In effetti, tra le opere che leggiamo conserviamo quelle che “ci riguardano”. Dal punto di vista dello scrittore questo significa non cedere mai alla tentazione di ricorrere a soluzioni facili, di puro stile. E’ vero che la genesi della scrittura è soggettivamente imperscrutabile e irrinunciabile, ma poi bisogna anche porsi la domanda se quella cosa che stiamo scrivendo possa riguardare un lettore che non ci conosce affatto. Il rischio più grande è proprio di trovare un modello “buono per ogni occasione” e con quello, come fosse un algoritmo, costruire il testo. Testo che magari funziona, si fa leggere facilmente. Ma questo è il punto, l’arte deve puntare a “turbare” il lettore. Non a impaurirlo, ma certamente a smuoverlo dalla sua posizione. Se offriamo al lettore ciò che lui già sa di voler leggere, facciamo maniera e nient’altro. Tengo sempre presente la lezione di Ungaretti e in particolare delle sue poesie scritte in trincea, quando non c’era spazio per la retorica e il poeta doveva/poteva ricorrere solo a un linguaggio essenziale in cui ogni parola si riappropria del suo significato e della sua capacità evocativa.

R.C. Prima domanda di rito. Quali sono i tuoi poeti di riferimento nella storia della letteratura?

N.B. Come dicevo, certamente Ungaretti. La sua esperienza biografica (cui ho dedicato un libro) di soldato nella grande guerra, è fondamentale per comprendere la cifra della sua poesia. Sento quella esperienza molto vicina. Ovviamente non con riferimento alla guerra, bensì alla necessità di ricorrere ad una parola asciutta, come pietra, unico approdo in un mondo certamente in disgregazione. Poi ci sono molti altri poeti che sono stati importanti per me. Se penso al mio apprendistato, non posso non ricordare il grande Franco Loi (scomparso lo scorso anno). Ci legava una sincera amicizia e ho avuto il privilegio di lavorare con lui ai miei primi testi. Era una persona di una generosità incredibile. Ricordo sempre con commozione quando andavo a trovarlo a Milano e lui, senza che glielo chiedessi, prendeva i miei dattiloscritti e si metteva vicino a me a leggerli a correggere, a suggerire, a spiegare. Lo so, è una fortuna che capita a pochi, perciò me la tengo stretta nel cuore. Ma naturalmente da tantissimi altri ho tratto insegnamento, anche solo leggendo. Per fare un esempio, uno dei primi poeti che ho scoperto da solo e per caso, è stato Bartolo Cattafi. Anche quella poesia così asciutta ma intensa, con una vena di arguzia e ironia, ma al tempo stesso malinconica; anche la lettura di quella poesia ha lasciato in me una traccia.

R.C. Sempre ne La specie dominante si leggono questi versi: «Guarda quant’è grande / il mio corpo / quanta carne e sangue / è un peccato tenerlo tutto insieme / occupare lo spazio / vorrei farlo a pezzi / e regalarlo». Franco Loi, nel commentarli, sottolinea come siano quasi un’elaborazione personale del nostro precipitare del buio. Un antidoto all’ideologia, rimarca. Potresti spiegarci di più il rapporto (di connivenza o contrapposizione) tra ideologia nell’accezione di Loi e poesia nella nostra epoca. Cosa hai diagnosticato ne La specie dominate? Cosa hai avvertito?

N.B. Non mi piace l’ideologia. In nessuna sua forma. Per me ideologia è voler sovrapporre alla realtà concreta, di carne e sangue, un’idea astratta. Per quanto questa sia animata da buone intenzioni, alla fine il conflitto con la realtà verrà sempre fuori. E ovviamente è e sarà sempre la realtà degli uomini a vincere. La storia lo insegna, ogni ideologia prima o poi si frantuma alla prova del tempo. Non è un caso che le grandi ideologie del secolo scorso siano state imposte e mantenute con l’uso della forza. Dopo di che c’è il buio, di cui parla Loi. Come nel Mago di Oz, quando è svelato il trucco, rimane ben poco. L’arte invece deve procedere per verità, aderire al reale. Chi vuole imporre un’ideologia lo sa bene; non a caso i tiranni hanno sempre temuto gli artisti. Si dice che gli artisti non contino granchè, eppure -guarda un po’- ogni volta che si è tentato di imporre un regime, i primi ad essere eliminati sono stati proprio gli artisti (intellettuali).

R.C. La forma di tutti, invece è la raccolta ospitata dalla collana «CartaCanta» diretta da Davide Rondoni e si avvale di una bellissima prefazione di Umberto Fiori che, nella sua breve nota, parla di moralità e mansuetudine. In effetti La forma di tutti sembra contenere in modo rilevante un tono chiaro, parsimonioso e mai arrogante. Una morale della scrittura, in qualche modo. Come sei arrivato a maturare questa concezione della scrittura?

N.B. È un po’ il frutto del percorso che ho tentato di descrivere sopra. A me piace leggere poesie tanto diverse tra loro, anche “gridate”. Ma quando scrivo il mio atteggiamento è sempre meditativo (in questo senso la poesia è una forma di preghiera, anche in senso del tutto laico). Il perché scriviamo è sempre un mistero, risponde a esigenze le più varie e differenti. In principio però c’è sempre un’urgenza, qualcosa di incandescente che chiede senza indugio di essere portato alla luce. Naturalmente il materiale all’inizio è molto grezzo, non credo molto nelle illuminazioni improvvise. Anche la cosiddetta “ispirazione” altro non è che la somma di tante esperienze (di vita e di pensiero) che ci portiamo dentro. Ma poi c’è il lavoro del poiein, del “fare”. E questa è una fase che mi affascina moltissimo, ovvero il vero e proprio artigianato della scrittura. Alla fine, il testo per me deve reggersi su un equilibrio, delicatissimo, per cui ogni singola virgola ha il suo posto, quello e non altro. Lo strillo non mi appartiene, semplicemente perché un pensiero che ha trovato la sua forma, non ha bisogno di arrangiamenti particolari. Sta, come una melodia ben poggiata sulla giusta armonia. Il mio ultimo libro è una raccolta di sonetti (“64 Sonetti”, Fuorilinea 2021), scritti dodici anni fa. Li avevo scritti proprio perché volevo misurarmi con una struttura chiusa. È strano, ma solo con il tempo ho capito che quella forma data, imponeva anche una consistenza e essenzialità del contenuto.

R.C. Seconda domanda di rito. Quali sono i poeti contemporanei che ti sentiresti di consigliare come lettura imprescindibile?

N.B. Questa è la domanda più difficile e più facile. Tutti, mi verrebbe da dire. Ma non si può, allora qualche nome a titolo di esempio, tra quelli a cavallo tra i due secoli. Intanto parliamo solo degli italiani, perché per gli stranieri la traduzione pone altri problemi. E allora, Franco Loi, come dicevo, ma ovviamente Mario Luzi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto. Ma questi solo per cominciare. E poi ti farò qualche nome tra i viventi, ma già so che farò torto a tanti che pure stimo e ritengo importanti. E allora, innanzitutto, proprio Umberto Fiori, tutta l’opera, per l’adesione alla vita e il canto nelle parole. O anche Claudio Damiani, la cui poesia è apparentemente semplice, ma diretta, intensa e quasi sapienziale. Almeno i primi tre libri di Valerio Magrelli. Silvia Bre per la straordinaria ispirazione. Davide Rondoni per la passione. E anche Franco Buffoni per l’impegno e il rigore. Naturalmente Milo De Angelis. E come non citare Umberto Piersanti per lo sguardo trasversale sulla memoria. Giuseppe Conte e i suoi miti. Come vedi si tratta di poetiche diversissime tra loro, quasi antitetiche. Ma a me piace leggere senza alcun preconcetto, guidato dal piacere della lettura e anche dall’interesse per l’esperienza del singolo. Ci sono molti altri nomi e non so se quelli che ho fatto siano o meno “imprescindibili”. Certamente rappresentano voci che hanno una loro identità e personalità riconoscibili, frutto di un percorso di scrittura onesto e consolidato.

R.C. Quale posto individui per la poesia oggi?

N.B. Ho la sensazione che la poesia oggi “sia di moda”. Intanto, nel linguaggio comune l’aggettivo “poetico” è appiccicato un po’ dappertutto. Ma non si spiega perché, cosa significhi. Del resto, definire la poesia in quanto tale è impossibile. Ma va bene così. Si dice che in Italia milioni di persone si definiscono poeti, nel senso che scrivono poesie. Tuttavia, gli acquirenti di libri di poesia sono pochissimi. Alcuni si disperano per questo. Ma a me sinceramente non preoccupa. Innanzitutto, cosa vogliamo, una folla da stadio ad ascoltare i poeti? E perché? Ma quando mai s’è vista in Italia una cosa del genere? Leopardi era inviso ai salotti letterari del suo tempo, ma non mi pare che se ne sia fatto un cruccio. Allora, diciamo che il voler leggere la vita, la realtà, con la lente della poesia, mi pare una buona cosa. Sempre e comunque. E chi se ne frega se è fatto in maniera “dilettantesca”, se la gente scrive ma non legge, etc. etc. La poesia ha sempre avuto tante funzioni per l’uomo. Basti pensare che era il genere letterario più frequentato nei lager nazisti. Evidentemente, nella violenza più bruta, l’individuo si rivolgeva alla poesia. Perché? Una forma di preghiera, si. Ma anche un modo di decifrare la realtà indicibile. Un conforto, certo. E anche una maniera di curare lo spirito. Insomma, tutte queste cose insieme e tante altre. Allora mi dico, se la poesia ha avuto queste funzioni in circostante tanto tragiche e crudeli, evidentemente può fare qualcosa anche tra noi, oggi, nella nostra realtà. E poi, le risorse del linguaggio della poesia sono più ampie di quello della prosa e possono (avendo maggiori libertà) costituire una cassa di risonanza per gli interrogativi e i temi più complessi e profondi. Certamente la poesia, che scardina sempre gli schemi (perciò è sempre audace e resistenziale) ci consente di dire quelle cose che altrimenti non sapremmo come dire.

R.C. Terza e ultima domanda di rito. Come giudichi l’attuale panorama poetico? In particolare quello delle nuove generazioni. E quali consigli daresti al giovane poeta?

N.B. Per prima cosa vorrei dire che in Italia la poesia sta benissimo. Io non sono tra quelli che dicono che la poesia è morta etc. etc. Queste lagne mi irritano. Basta leggere. Abbiamo una feconda piccola editoria che, in barba alle logiche delle major, pubblica sfrontatamente libri di giovani sconosciuti, così svolgendo una ricerca fondamentale e spesso scoprendo veri talenti. Mi piace leggere i poeti più giovani, ce ne sono tanti di bravi che si stanno facendo strada per qualità. E’ certamente più facile oggi che un tempo. Anche perché i ragazzi hanno a disposizione l’infinita banca dati offerta da internet, e poi ci sono scuole, manuali. Anche mantenere relazioni e contatti è molto più facile ora. Basti pensare che quando io ho cominciato a scrivere, per farti conoscere dovevi fare le fotocopie da spedire per posta o tentare di consegnare a mano! Ma questo è il progresso ed è molto bello, diciamolo senza inibizioni né ipocrisie. Però bisogna fare attenzione. Soprattutto i giovani devono sapere che la facilità di accesso alle varie risorse, non può tradursi in una facilitazione della scrittura. Il processo della scrittura è sempre difficile e laborioso. Quindi la prima cosa che sentirei di suggerire è di non avere fretta, di non smaniare per pubblicare, farsi conoscere, farsi invitare alle letture e così via. Inoltre, non basta imparare dei “modi” per scrivere belle poesie. Si rischia di diventare degli imitatori, o peggio dei cloni. Allora suggerisco anche di non accontentarsi mai, di porre sempre in discussione il lavoro appena fatto, sotto il filtro delle domande cruciali: ha senso quello che ho scritto? Riguarda qualcuno oltre me? L’han già detto altri? C’è un altro modo per dirlo? Il lavoro di artigianato poi deve avere tutto il tempo che richiede. Intendiamoci, se scrivo poesie per tenerle solo nel mio cassetto privato, posso fare a meno di pormi tutti questi problemi e qualsiasi cosa scriva va bene. Ma se ho la pretesa di far leggere le mie poesie anche a una sola persona, queste questioni me le devo porre. Si tratta di trovare la propria voce lavorando sul linguaggio, senza perdersi troppo nella letteratura e mantenendo almeno un piede ben piantato nella vita. Viviamo in un mondo che va sempre più veloce, verso direzioni che neanche riusciamo a immaginare. La forza eversiva della poesia è stata, è e sarà sempre, proprio di porsi controtendenza nelle stesse dinamiche dell’accadere; e così di essere sempre fisiologicamente “rivoluzionaria”.


Nicola Bultrini (Civitanova Marche, classe 1965) vive e lavora a Roma. Tra le sue raccolte ricordiamo Occidente della sera («VIII Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea», Marco Y Marcos, 2004), La specie dominante (Nino Aragno Editore, 2014) e La forma di tutti (CAPIRE Edizioni, 2019).

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