di Alessio Vailati
da This is not my hour. Studio e traduzione dai “Sonnets”, a cura di Raffaello Bisso (Edizioni del Foglio Clandestino, 2018)
Il noto psicanalista junghiano James Hillman nel suo saggio Le figure del mito pone una importante – oserei dire cruciale – riflessione sul valore e sulla funzione della parola all’interno della società contemporanea. Hilmann si chiede innanzitutto perché la parola ricopre un ruolo essenziale in una cultura (estendo il concetto: in una civiltà) e, in secondo luogo, perché l’arte della persuasione, la Peitho di Atena, è caduta tanto in disuso nella nostra cultura. La risposta che lo psicanalista prospetta al lettore coinvolge diversi aspetti dai risvolti psicologici, etici e sociali. Nel chiarire la sua posizione circa il primo quesito, dopo aver fatto un rapido accenno al finale della Orestea, scrive: “le parole hanno facoltà di persuadere gli elementi più tenebrosi a partecipare, a darsi uno spazio. Dobbiamo parlare e lasciarli parlare”. Passa poi a esaminare la seconda questione: “la risposta alla seconda domanda ci rimanda alla profonda, determinante importanza della realtà psicologica e spirituale. Se le realtà ultime sono gli oggetti, le cose, gli eventi materiali –cose morte fuori di noi (…) – allora il discorso non ha alcuna efficacia. Flatus vocis, parole vuote, fato sprecato”. La conclusione è che le azioni risultano essere più efficaci e che l’uso della forza (Bia) prevale sul discorso persuasivo (Peitho) con gli esiti che sono davanti agli occhi di tutti. Al di là di questi aspetti, ricalibrando ulteriormente la riflessione in chiave più che attuale, credo che ciascuno di noi si debba interrogare sul valore effettivo della parola ai tempi dei social network: una parola tanto superficiale quanto votata all’effimero, oltre che languente nella adesione alle cose e piegata alla logica del profitto e di fuorvianti idee di consenso e di successo. In un simile contesto, in cui la parola brulica, prolifera ed è inflazionata, tanto da essere svilita e deprivata di valore e contenuto, la poesia oggi potrebbe (dovrebbe) essere lo strumento in grado di restituirle il suo valore assoluto. La poesia, come elemento di rottura, di resistenza e rivoluzione, dovrebbe cioè ricostruirsi attraverso il recupero dell’idea di parola assoluta. Riscoprire, insomma, pur nelle inevitabili difficoltà, le sue potenzialità. Come quella di farsi voce incisiva, demistificante o di denuncia. Da questo punto di vista il libro di Russell, “This is not my hour” (edito da una piccola ma seria e valida casa editrice le “Edizioni del Foglio Clandestino”, 2018) suona come una presa di distanza di un poeta importante dalla società contemporanea, fondata su economia e sfruttamento e percepita come in costante caduta e decadente nei suoi valori (etici e sociali) fondanti. Il primo testo (p.15) ne è la riprova
Sometimes I think that everything is lost
And all this labour just a waste of time.
The rich and famous get away with crime,–
I’ve spent my all on poetry at a cost
People consider crazed (…)
(A volte penso che tutto sia perduto, che questa fatica
Sia solo uno spreco di tempo.
I ricchi e famosi la fanno franca col crimine; –io
ho speso tutto il mio mondo per la poesia, a un costo
che la gente considera folle…).
Il tema della caduta dà un’impronta decisamente forte al libro di Russel. Già nel secondo sonetto (p.19) leggiamo:
Mental entropy, the worst of fates,
Askin to, if not the same quite, as the Fall,
It’s natural for Man to want the All,
But animals are pleased when on their plates
There is enough unto the day…
(È l’entropia mentale: stato Fato o caduta, avversa e familiare
se non conspecifica all’uomo schivo schiavo del volere universale – del volere tutto
ma la bestia no, la bestia guarda la ciotola, sazietà della pancia
e dell’esistenza stessa un giorno… )
Ma anche più avanti (p.26) in una poesia dove abbiamo, fra l’altro, riferimenti al discorso delle Beatitudini, la Caduta è associata al Peccato originale.
It’s not for us, like moralists, to bring
Charges that only aggravate the Fall,–
Mankind’s dark sojourn in the Universe.
(Noi non dobbiamo, come i moralisti,
recare accuse che rendano più dura
la Caduta, –l’oscuro soggiornare
dell’umanità nell’Universo)
Non abbiamo in Russell soltanto la condanna (a volte ironica, altre volte quasi un’invettiva) del materialismo e del consumismo più spinto, l’idea del disfacimento spirituale nell’individuo e nella società moderna, le istanze che spingono a guardare alla grandezza dell’Universo. Importante è anche il rapporto con la Natura e con il Tempo. Si veda a titolo esemplificativo il sonetto 13 (p.34)
The waste land here is always prompt to speak
The weeds serve as my calendar, no need
For clocks or almanacks each day to read
That time of the year, or know the month or week
To seek the hedge-rose, or plant the odorous leek.
(La guasta landa qui sempre pronta a parlarmi:
le malerbe il lunario, sì che non servano
almanacchi e orologi, per sapere come volge
stagione, o i giorni propizi per cercare la rosa da siepe,
o piantare il porro dal grato sentore …)
Russell, nato a Bristol nel 1921, ha vissuto per una parte della sua vita in Italia (è morto nell’ospedale di San Giovanni Valdarno il 22 gennaio 2003). È considerato uno dei grandi lirici moderni, erede della tradizione simbolista e modernista. La sua poesia, come può intuirsi dai brani che sono stati testé proposti, esplora i grandi interrogativi dell’esistenza ed è costruita intorno alla forma del sonetto (una forma classica). Tuttavia, per temi e sviluppo, riesce a mantenersi su una linea di grande modernità. Sono poesie stratificate, a più dimensioni: il primo livello riguarda la struttura formale e l’impianto fonico, legato cioè alla più alta tradizione che privilegia la musicalità; il secondo livello è quello del senso, del significato (come si direbbe oggi) e qui ha davvero un senso parlare di significato perché c’è una cura maniacale per il significante. Il significato a sua volta è originato da una doppia apertura. Innanzitutto, quella verso il senso interno al testo, sempre coerente e lucido. Russell guarda cioè ai temi più elevati della poesia con uno sguardo che è un confronto serrato fra realtà concreta e valori assoluti, fra contingente e trascendente. In secondo luogo, dobbiamo rilevare anche l’apertura al senso dato dai riferimenti esterni, metaletterari, intertestuali, utilizzati costantemente. L’intreccio di senso interno e senso esterno è fluido, un continuo scambio osmotico in cui l’uno si nutre dell’altro. Una scrittura colta e sapienziale, tanto immanente quanto alata. L’opera di Russell arriva a quell’ideale di poesia che getta continuamente ponti, offre al pensiero ali, ne risalta cioè quella attitudine che gli è propria di spaziare attraverso i tempi e le culture. Il libro “This is not my hour”, tuttavia, non esaurisce la sua bellezza nei quarantuno sonetti ospitati (su una produzione a dir poco molto corposa) ma vuole offrire uno spunto per approfondire l’opera di un Poeta dotato di una grandissima cultura, con una vita fuori dall’ordinario e con una passione tanto grande per la Poesia che lo portò a scrivere (p.58):
Poetry for me is not just what I do,
But what I am, perpetually.
(Sono poesia e non la faccio, e per sempre)
Questo agile ed efficace libretto, ricostruendo la figura di Peter Russel con i suoi versi, con fotografie e con riproduzioni di documenti autografi (integrati da alcune note e saggi) vuole insomma aprire la strada alla riscoperta di un grande Poeta, nell’auspicio che la sua opera possa trovare, anche in Italia, la meritata attenzione e che si possa dire finalmente giunto il suo momento. Perché, ora più che mai, ce n’è davvero bisogno.