Emanuele Franceschetti | Testimoni

di Riccardo Canaletti
da Testimoni, in XV Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021)


La scrittura di Franceschetti condensata in Testimoni (all’interno del XV Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos Y Marcos, 2021) presenta una linearità scomposta, come quelle delle vertebre o dei mosaici. L’impianto funzionale della raccolta si realizza pienamente grazie all’ordine delle poesie, costruite in modo da rappresentare l’immagine finale. Allo stesso modo, come i mosaici, tale immagine può essere scomposta a partire dallo sguardo di insieme, dall’ultima poesia, dove si possono giustappore il primo e l’ultimo verso: “Nel nascondiglio fresco da cui osservi / […] Si improvvisano trincee. Nessuno canta.” (p. 208).  Il corpus poetico sembra così finalizzato a riempire un vuoto, letterario e anche culturale, che ha sostituito il tragico. L’autentica tragicità di questi versi è condensata anche nel titolo. Per definizione, infatti, un testimone è colui che apre al passato, in una chiave perfettamente attuale, probatoria. E questo passato ha bisogno di testimoni, fantasmi inattuali di qualcosa su cui deve esser fatta nuova luce. Questo il senso che è possibile dare anche alle parole della prefazione di Massimo Gezzi, in cui si dice: “Se è così, si capisce bene come l’atto di testimoniare e il ruolo dei Testimoni diventino un compito attivo, ‘un volere modificante, un pensiero motorio del nuovo’, con le affascinanti parole di Bloch.” (p. 164). Questa tendenza fenomenologica permette a Franceschetti di farsi un soggetto attivo senza io o, meglio, osservatore disincarnato ma presente. Questa apparente contraddizione, tra una esaminazione nella carne dell’esperienza che si manifesta in una visione non più solo dell’autore, viene intravista in qualche modo ancora da Gezzi, che parlando dell’ultima sezione, Misure del canto, indica come il poeta stia chiedendo di partecipare alla “sorte di tutti” (p. 166).

I primi testi fanno da dichiarazione di poetica, forse involontaria, ma la cui posizione all’inizio della raccolta tradisce, nel caso, almeno una comprensione inconscia della loro natura proemiale. Nel primo si legge: “La vita si contamina, persiste.” (p. 171). La poesia affonda così non nella lotta, nel vivo della confusione, almeno in Franceschetti. Bensì nello scenario dopo la battaglia, nel campo dilaniato, dove i corpi feriti accolgono i batteri, le cancrene, appunto si contaminano. Eppure, dove la vita persiste. Le morti dopo la battaglia sono infatti ancora morti di guerra, tornano al momento del conflitto. Dunque, il momento della poesia non è il momento della morte, ma il momento della vita che persiste. Ma tale persistenza, che di per sé e già limitata, aleatoria, breve, interroga con urgenza il poeta ancora di più, perché contaminata, perché a rischio più di quanto non lo sia già. Nel secondo testo si può infatti leggere: “Lasciare che le parole procedano come per gemmazione, / come per urgenza di dire / questo è stato” (p. 172), con quell’essere volto al passato nell’atto presente di scrivere, dove la scrittura, abbiamo detto, ha un’intenzionalità rivolta al futuro. Ecco il quadro pigmentato dell’opera che inizia a formarsi. Questo ritratto del presente dell’autore è perfettamente riconoscibile da parte di altri grazie a questi segni universali che codificano le nostre immagini, che sono immagini di tutte, o almeno immagini che Franceschetti ci sprona a considerare non insindacabilmente nostre (“altri occupanti abuseranno dei dormiveglia, / delle meditazioni dentro i treni”, p. 173). E quanto ciò sia ineludibile lo dimostra, nello stesso testo, l’identità tra codice universale e radice (ivi). Radice nel significato che ne dava la filosofia antica di origine di ogni cosa. Il linguaggio che crea un mondo comune, il linguaggio che significa sempre + 1 rispetto a chi scrive/parla. Il linguaggio che implica almeno 2, almeno qualcuno che ascolti, che comprenda, qualcosa che potrebbe interrogarsi tanto quanto te. Così la testimonianza diventa la causa efficiente del linguaggio poetico di Franceschetti.

Non si deve, però, fare l’errore di credere che il linguaggio basti a se stesso. Che Il mondo non sia altro che questo nostro dire il mondo. Infatti stare “nel fitto didascalico dei segni” (p. 174)  non ti restituisce un nome, non designa. Il linguaggio deve avere anch’esso un limite, come la persistenza. Ecco che la vita aderisce al dettato poetico dell’autore in modo da evitare qualunque catena, qualunque ritorsione del linguaggio che infici la testimonianza. Se c’è un armamentario umanistico (come sostiene Gezzi nella prefazione (p. 164), questo sembra prendere le distanze (almeno nella realizzazione sul piano stilistico dei testi, mentre potrebbe rimanere sotterraneo e non manifesto nelle letture dell’autore) dalla letterarietà a tutti i costi, dalla narratività della lirica che parla di se stessa. Prende le distanze, in una parola, dalla retorica e dall’autocompiacimento. A differenza di altri autori della sua generazione o delle generazioni vicine (anche presenti nei Quaderni) non c’è ammiccamento verso la complessità inutile, verso il pensiero che si arrovella al costo di rinunciare alle parole migliori per dire la cosa migliore (come qualcuno diceva che dovesse essere la poesia). Qui si hanno, al contrario, le parole migliori per dire una cosa (migliore o meno) che viene costantemente tematizzata dall’autore e cui viene rivolta un’inchiesta spietata (tematizzata quando si parla dei “giorni del contagio”, che non hanno testimoni di cui necessitano, p. 176; e problematizzata, anche criticata, quando si ricorda che “i vivi se ne vanno”, p. 177, che la “fine del mondo è la fine del mio mondo”, p. 187; quasi a dire che no, non si è mai testimoni abbastanza se non riusciamo a farci voce di un sentire comune, voce disincarnata e allo stesso tempo presente).

L’ultima sezione, Misure del canto, è difficilmente commentabile. Siamo di fronte a una poesia “virtuale”, immateriale perché fatta di un fascio di percezioni. Il poeta rielabora un mondo esperienziale al di là della sostanza. “Una sera come tante …” (che riprende un verso di Giovanni Giudici e che già era presente nell’opera precedente di Franceschetti, Terre aperte, 2015) diventa l’occasione in cui “punge ancora la domanda di sempre, quasi m’annoia / nella sua ricorrenza.” E della serata non ci dice nulla. Si perde anche il tentativo di sintesi (Gezzi ne parla suggerendo termini quali ‘compressione’, ‘opposti’, ‘paradossi’; p. 166). Quello che all’inizio sembrava contraddittorio, l’alternarsi di io comune, di coro, e io personale, esperienza, diventa addirittura inconciliabile per oltre il legame logico di due termini in opposizione (come A e non-A). Qui crolla la contraddizione, che diventa qualcosa di incomunicabile, qualcosa che è assente, manifesta solo in un lavoro di scrittura, un mestiere, una pratica, una rifinitura continua, per lasciare che resti un messaggio non pacificato. Qui è presente il solco della lettura poetica che Franceschetti dà della dialettica negativa, il senso dell’opera di Adorno intorno al quale si plasma un’identità dell’oggetto nel concetto, nella convinzione degli opposti dinamica, che sa criticare se stessa, che sa mettersi in discussione. Un pensiero in movimento mai sostituito alle cose, ma identico a esse nella sua costante differenza, incompatibilità di fondo. Un messaggio indocile, “segni nell’incunabolo, / forme della mancanza.” (p. 205).

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